papa

Dentro il suo studio mi toccò simpaticamente la spalla e mi disse: “Coraggio, giovane”, con quell’accento tutto tedesco e l’amabilità tipica dell’età dei nonni che contraddistingue lo stile di Benedetto XVI. Un Papa che più lo guardo più m’intriga, più lo studio più m’incuriosisce, più lo amo più m’incanta. Un Papa che però somiglia sempre più a quel soldato giapponese che, conclusa la seconda guerra mondiale da due giorni, lo trovarono ancora col fucile in mano a sparare. Gli risero dietro: “la guerra è finita, ragazzo”. Oggi ridono dietro a lui, vecchio condottiero d’una chiesa-scialuppa: “lasci perdere, santità”. E ogni volta lui riparte: in contropiede, mai scontato, inarrestabile nella sua timidezza.
Inizia la Quaresima e arringa il clero, parlando a braccio, in prima persona. Forse l’ha capito pure lui che i discorsi che gli scrivono non dicono più nulla, non appassionano, sono più spot pubblicitari di Cesare che evocazioni di Dio. E allora lui parla a braccio ma non a vanvera: parla di timidezza e solitudine, di potere e di servizio, di umiltà e di cenere sul capo. Non è simpatico essere Mosè, ma il popolo va pur condotto in mezzo al deserto. E lui di Mosè ha la fermezza e di suo ci mette l’intelligenza: lui lo sa che oggi nella chiesa cattolica è in atto uno scisma nascosto. Lutero ruppe e tutti seppero il perché. Oggi sotto una fastidiosa apparenza è in atto uno scisma più pericoloso che vede all’interno della Chiesa stessa i suoi artefici: non viene a galla perché l’intuito di Lucifero vale più di mille pubblicazioni cardinalizie. Uno scisma che sta sfilacciando il tessuto, l’ortodossia, la santità stessa di chi nella Chiesa crede abiti il sogno stesso di Dio. Il Papa parla a braccio e tutti tremano perché non è pilotabile dalle “cordate di curia”. Umile e nascosto redarguisce e mostra loro di non essere il fratello sfortunato che pensano di avere in casa: lui è Papa, con l’aggravante d’aver preso sul serio la sua missione di successore di Pietro. Deve indire i concistori ma non perde occasione per sferzare i nuovi custodi di un berretto cardinalizio, magari lungamente inseguito: servizio, mansuetudine, grembiule. Fanno finta di non capire, acconsentono con il capo ma almeno sapranno che quando lo lasciano parlare il Papa non chiacchiera.
Un giorno lo lasceranno parlare con libertà: nessuno è così sprovveduto da non intuire le manovre sottostanti. E quel giorno sapremo tutti di che pasta è fatto un uomo di Dio, scoprendo che a lui la realtà della Chiesa è nota da tempo. Non è come la regina di Antoine de Saint-Exupéry, quella che fece visita tra i suoi sudditi per conoscere il loro pensiero. La ingannarono: sul suo cammino fecero sorgere scenografie festose e pagarono comparse per il ballo. Non le fecero vedere nulla del regno all’infuori di quella strada. Lei non seppe che nelle campagne la maledivano. Il Papa s’è accorto che la Chiesa non è quella che gli vogliono far credere. Se non sposta tutti non è per mancanza di carattere o di debolezza ma di semplice amabilità, quella che cantò un suo predecessore: “il problema è la fede separata dalla vita, la fede che non è più capace di generare cultura. E’ da qui che si deve ricominciare, dalla testimonianza che il cristianesimo è umanamente conveniente. Altrimenti si fa solo del moralismo” (Giovanni XXIII). Dell’inutile moralismo.
Oggi quella pacca sulla spalla gliela riconsegno io: “coraggio, Santo Padre”. Parli più spesso a braccio perché quell’apparente improvvisazione altro non è che la voce di un Dio che chiede alla sua Chiesa di iniziare a fare Quaresima e piangersi un po’ meno addosso. Perché nei sacri palazzi e nelle sacrestie il digiuno non sia solo questione di branzino al posto del filetto o di orata al posto della tagliata ma rimanga una questione ben più seria: corrispondere al sogno di Dio.
Quel Dio che oggi chiede di poter umilmente rimettere piede dentro la sua Chiesa.

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