La visione della farfallina (tatuata, ndr) di Belen Rodriguez è durata qualche frammento di secondo; il soliloquio notturno del tribuno Adriano Celentano è durato poco meno di un’ora. Il tentativo di scalata del Nanga Parbat apportato dall’alpinista italiano Simone Moro è durato la bellezza di cinquantuno giorni. Ai primi due l’informazione italiana ha dedicato fiumi di inchiostro e migliaia di clic, al secondo è stata riservata l’inezia di qualche rapida battuta d’agenzia. Lungi dal criticare chi si erge a tribuno della plebe e poi perde la testa o chi sulla Riviera dei Fiori ci va in virtù dell’assioma che “a chi nasce bello/a tutto è concesso”, rimane il sospetto che il pensiero generale – del quale l’informazione conosce a menadito attese e desideri fino a soddisfarli, magari manipolando la realtà – abbia deciso di continuare a vivere nella sua fase di delirio. Il termine delirio deriva dal latino “de-lira” (lett. “uscire dal solco/misura”), ovverosia uscire dalla strada della ragione. Che un attore o un’attrice facciano leva sulla curiosità, giochino in anticipo per creare dibattito e poi rimanga loro solo la possibilità di uscire dalle righe per non sfigurare rispetto alle attese è cosa assai prevedibile, com’è prevedibile che se corri a torso nudo in un ghiacciaio potresti prendere un leggero raffreddore. Non è quindi l’omelia del martedì sera di Celentano (non erano di domenica le messe in diretta di RaiUno?) o il tatuaggio di Belen a preoccupare: ciò che intristisce è l’eccessiva attenzione che qualcuno riserva ancora loro, pure dai pulpiti delle chiese.
Il sogno di Simone Moro era la conquista d’inverno del Nanga Parbat, la montagna maledetta che tre estati fa ha inghiottito Karl Unterkircher. Sarebbe stata una conquista storica, la prima; invece dopo cinquantuno giorni di dedizione, pazienza e straordinaria forza di volontà (supportate dal silenzio totale di chi era tutt’intento ad immaginare il “delirio” di Sanremo) si sono dovuti arrendere per le condizioni proibitive della natura. Potevano “delirare”, andare oltre il buon senso e rischiare: hanno preferito arrestarsi sul limite perché una mancata conquista “non deve essere considerata un fallimento – ha commentato Moro nel suo blog – ma solo un’esperienza che potrà servire come base per altri futuri progetti”. C’è un limite e una misura nascosta in ogni cosa: arrestarsi un attimo prima o proseguire un attimo oltre a volte decreta la differenza tra la vita e la morte, l’intelligenza e la demenza, la nobiltà e il disgusto. E’ stato forse per questo che l’informazione non ha seguito per come meritava questa spedizione: tutt’intenti a rincorrere il delirio dello scandalo e sposare ciò che supera il confine del buon senso, abbiamo smarrito la bellezza dell’intelligente normalità. Quella che distante dal clamore insegna come siano due i modi per uscire vittoriosi da un campo di battaglia, qualunque esso sia: il primo è mettere a segno l’ultimo punto o piantare la bandiera sulla cima di un monte; il secondo è dare il massimo delle proprie possibilità senza correre il rischio di uscire dal solco della ragione.
Denis Urubko, compagno di scalata di Simone Moro, scrive: “bella montagna e avventura intensa (…) Grazie a Dio siamo ancora qui, pronti per nuove sfide”. Arrestarsi un attimo prima di delirare non è cosa da addebitare agli ignavi; domattina potrebbe mostrarsi come il credito di una nuova impresa nella quale avventurarsi: con buona pace degli anziani tribuni della plebe. E di chi accetta da loro qualsiasi delirio pur di tener nascosta l’epigrafe di ciò che, morto da tempo, si tenta invano di rianimare.