Che d’inverno faccia freddo e d’estate faccia caldo lo sanno tutti, persino il mondo animale, che sulla base di questi dati si è adattato all’alternanza letargo–risveglio. Sono dell’autunno le foglie colorate e avvizzite; è della primavera il rosso delle ciliegie e il bianco dei mandorli; mentre all’estate spetta il colore dorato del grano e la liturgia della fienagione. Apparterrà poi all’inverno la stravagante sorpresa di avvolgere il tutto in quel bianco che trattiene mistero e imprevedibilità, custodendo la vita nascosta sotto quell’apparente deserto di silenzio. Che d’inverno nevichi e faccia freddo non occorre che sia il colonnello Giuliacci a ricordarcelo e nemmeno che il capo della Protezione Civile vesta i panni del grande generale: siamo nel pieno della normalità. È da una vita che d’inverno nevica e d’estate c’è il sole, eppure in questi giorni l’Italia somiglia ad uno scolaro sconfitto in contropiede da un compito a sorpresa, per nulla calcolato o previsto: imbarazzo e impreparazione, scuse e giustificazioni, ma – sopratutto – la voglia di scagliarsi contro quel prof che non doveva assolutamente comportarsi in quel modo. Ci sono cose riservate agli studenti e cose riservate agli alunni, ci sono paesaggi propri dell’inverno e scenari tipici dell’estate. Non si può all’inverno chiedere di comportarsi come l’estate, come ogni buon allenatore sa che in una squadra non è livellando le individualità che si innalza il collettivo, ma è valorizzando le specificità di ognuno che nasce la potenza dirompente e vincente di un gruppo.
Una nevicata d’inverno è una cosa assai normale: l’eccezionalità sono quegli inverni in cui la neve non scende. Cosicché, abituati all’eccezionalità, oggi ci arrabbiamo della normalità, di quel semplice vivere quotidiano che sembra stizzirci ogni mese un po’ di più perché scombussola i nostri programmi. Succede nella natura così come succede nella storia dell’uomo, dove pure lì ad ogni stagione corrisponde un colore e un desiderio: la dimensione ludica dell’infanzia, l’apertura ai sogni dell’adolescenza, l’individuazione di una rotta ai tempi delle superiori, l’investimento delle risorse ai tempi dell’università. La ricerca appassionata e lacerante di un futuro all’altezza dei propri sogni. Ad ogni età il suo orologio: spingere le lancette o modificare la scansione del tempo, domattina arrecherà come credito la fatica di accettare la normalità della vita quotidiana. La perturbazione che sta investendo la nostra penisola diventa oggi una metafora emblematica dello scarto tra le spinte dell’uomo e la ragionevolezza della natura umana. Se a febbraio fioriscono i mandorli e poi una nevicata li raggela, l’anormalità sono i mandorli che fioriscono a febbraio e non la neve che scende in questa stagione. Forse è così anche nella vita dell’uomo: certe aspettative inducono frustrazione per il semplice fatto che sono state accelerate, costrette a fiorire anzitempo, rovinate per la troppa fretta di vederle sbocciare. Mi tornano alla mente le parole splendide di quel prof piemontese raccolte l’altro giorno a margine di un’assemblea d’istituto dal titolo “Sogno perché ho paura di rimanere sempre uguale”. Vedendo all’opera quella mattina i suoi studenti – una di quelle mattine in cui andare a scuola è imparare divertendosi – mi confidò: “tanti aiutano gli studenti a chiedersi se troveranno un posto di lavoro finiti i loro studi. In questa scuola (un istituto tecnico, ndr) vogliamo che i giovani si chiedano quanti posti di lavoro saranno capaci di creare con la loro intraprendenza e competenza”.
Un prof precario che per diventare “di ruolo” dovrebbe forse invitare i ragazzi ad arrabbiarsi perché d’inverno scende la neve. Gli auguro di rimanere così, un precario appassionato: temo che a questo punto sia l’unico modo per aiutare i giovani ad organizzarsi la speranza dentro di loro.