concordia

Sono parole che parlano, al netto delle chiacchiere. Cosicché ciò che il Vangelo annuncia – e che raramente riesce ancora a sorprenderci – diviene in un battibaleno un qualcosa dalla portata sconvolgente. Il naufragio della Concordia di fronte all’Isola del Giglio rappresenta oggi una metafora eloquente di quello che Gesù ebbe a dire ai suoi discepoli in una pagina del Vangelo, quando raccomandò loro di “prendere il largo” per poi calare le reti per la pesca (Lc 5). Il contrario di “prendere il largo” è “fare l’inchino”, verbo che come abbiamo avuto tristemente modo di apprendere in questi giorni, significa accondiscendere alla tentazione di farsi ammirare da coloro che stanno sulla riva. La magistratura farà il suo corso – e ci dobbiamo credere, pena una gigantesca confusione sociale a più livelli – ma l’episodio diventa un quadro pittoresco e dalle tinte forti che ben rappresenta il vivere umano odierno.
Una nave da crociera è un sogno divenuto realtà: è la perfezione al massimo grado, è la ricerca avanzata a più livelli, è il massimo che esista sul mercato. E dev’essere così, dal momento che in essa viaggia un intero paese di modeste proporzioni. Eppure tutto questo non deve farci dimenticare il ruolo preponderante che ha ancora l’uomo, nelle cui mani sta il timone di una nave. La leggerezza, la poca avvedutezza, la voglia di inchinarsi alle varie circostanze più o meno meritevoli rimangono ancora la discriminante ultima per la buona riuscita di un viaggio o di una catastrofe. Francesco Schettino passerà alla storia come l’uomo dalla manovra spericolata, il capitano sulle cui spalle grava il peso di una disfatta secolare, l’uomo capace di brindare in dolce compagnia quando probabilmente già la rotta della disfatta era annunciata. Passerà alla storia come il comandante che ha abbandonato la nave in difficoltà: né più né meno di coloro che cavalcano una finanza sregolata per poi uscirsene con una buona uscita in tasca e una scialuppa abbandonata. O come chi sulle strade guida bolidi impazziti offrendo rischi di incolumità per tante persone. O di coloro che pilotano i fallimenti delle aziende incuranti delle famiglie che da quelle scelte usciranno senza più un tetto e una casa. È proverbiale che il capitano – qualunque sia il suo campo d’azione – debba essere l’ultimo ad abbandonare la nave; che sia proverbiale, però, non è sinonimo di semplicità. E il naufragio della Concordia ne è l’esempio. Eppure dentro il dramma abita la solidarietà e la speranza che, guarda caso, risplende anche nell’oscurità più grande. Perché nell’attimo in cui la nave si rovescia contro, in cui l’uomo lotta per la sopravvivenza e le urla divengono l’alfabeto più incomprensibile c’è gente che ha dato la vita per salvare altre persone. È la dimostrazione che il bene è possibile sempre, nel massimo dello splendore come nel massimo dell’oscurità.
Al di là di tutto rimane però il grande monito di questa sventurata pagina di storia, non solo di chi abita il mare: la necessità di un capitano che sappia vegliare e che abbia ben presente la rotta da seguire. Tante volte si paragona la Chiesa ad una nave in balìa delle onde. La fortuna è di avere al timone un Papa-Capitano che ha scelto di non abbandonare la nave in un momento di possibile naufragio. Costi quello che costi: anche il prezzo di vedersi complicare il salvataggio ad opera del suo stesso equipaggio.

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