vergognaUn senso di vergogna che racconta la morte della speranza. A Torino una ragazza sedicenne – per vergogna, dopo il primo rapporto sessuale della sua vita – addossa l’infamia di uno stupro alla comunità dei Rom del quartiere Cantinassa: esplode la rabbia e le fiamme accoltellano la speranza di intere famiglie. A Padova un imprenditore buono e stimato, Giovanni Schiavon, si toglie la vita per la vergogna di non riuscire più a pagare i suoi dipendenti: ad uccidere un uomo d’imprenditoria non sono stati i debiti ma i debitori. Due storie di cronaca settimanale apparentemente distanti tra di loro, ma accomunate da quel senso di vergogna che ad un certo punto s’impadronisce dell’animo umano rubandogli la lucidità e azzannando la speranza di una delusione da gestire.
Provare vergogna testimonia la debolezza d’essere uomini e donne. Eppure il senso di vergogna – qualora lo liberassimo dalla connotazione prevalentemente negativa legata alla morale cristiana – costituisce l’opportunità, seppur dolorosissima, di spogliare l’uomo e di aiutarlo a scoprire la sua intimità più vera. Oggi, invece, la vergogna è l’anticamera della sconfitta, l’inizio di un qualcosa di spiacevole che nasce sempre da quello sguardo esterno che viene letto come l’occhio di uno che ci giudica e ci fa perdere la nostra posizione nel mondo che pensavamo conquistata una volta per tutte. Uno sguardo che diventa ben presto voce ostile che ci giudica severamente senza possibilità d’appello. L’invasione della vergogna dentro lo spazio della nostra intimità spazza via l’immagine sociale che ci avevano cucito addosso: la ragazza bella, buona e obbediente alla mamma, l’imprenditore dal cuore buono e umano, il prete dallo sguardo attento e profondo, il prof dall’animo nobile e appassionato. Vergognarsi è come uscire da un anonimato che ci proteggeva e accorgersi d’avere un volto dal peso insopportabile. Siamo distanti migliaia di pensieri da quella definizione che Heidegger diede della vergogna: “lì dove egli arrossisce, inizia il suo essere più nobile”. Nonostante l’uomo nella vergogna scopra un’altra sfaccettatura di se stesso, questa è una scoperta che si veste di dolorosa conquista quando ci si accorge che non si è più ciò che si è sempre voluti essere, ma scopriamo d’essere un’altra persona che non è riuscita ad essere ciò che desiderava. A differenza dell’imbarazzo che c’invade quando si sta in compagnia di altri, ci si può vergognare anche da soli, quando ci si rende conto di aver compiuto (la ragazza di Torino) o di aver subito (l’imprenditore padovano) un qualcosa per cui possiamo essere considerati dagli altri in maniera opposta da quello che avremmo desiderato.
C’è chi per la vergogna si uccide e dietro di sé lascia una grammatica di difficile interpretazione per coloro che avranno l’ardua sfida di dare una motivazione al gesto. E c’è chi per coprire una vergogna decide di scaricare la colpa addosso ad altri, forse schiacciato/a dall’aver infranto il ricatto più subdolo e diseducativo del mondo – “non vorrai mica dare un dispiacere alla mammina, vero?” – che ha bloccato la nascita della responsabilità delle proprie azioni. Il rossore sul volto – tipica traccia di un sentimento di vergogna – accomuna queste due storie. A differenziarle, la motivazione che ci sta dietro: da una parte la vergogna di non poter più sostenere la responsabilità dei propri dipendenti e delle loro famiglie. Dall’altra la vergogna d’essersi dimostrata per quello che si era veramente: una ragazza fallibile come tutte le giovinezze del mondo.
Imparare a gestire una vergogna è aiutare la vita a rimanere accesa.

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