simoncelliGli occhi di un bambino ingabbiati dentro una capigliatura da orso ch’era il suo marchio di fabbrica. E quelle mani capaci di sgasare ad oltre 300 km/h per agguantare una bandiera a scacchi che – come diceva spesso – bisogna prendere a schiaffi se vuoi tornare da vincitore. Lui correva per divertirsi e oggi ringraziamo il Cielo se divertendosi accendeva pure quel pubblico che l’aveva eletto degno successore dell’amico Valentino Rossi. L’unico suo cruccio era quello di fare staccate al limite, di superare gli avversari per far passare la sua moto un millesimo di secondo prima di quelle rivali e andarsi a prendere quel trofeo dentro il quale abitavano i sogni di un ragazzo cresciuto tra paddock, vibrazioni sull’asfalto e battiti accelerati nel cuore. Marco Simoncelli è morto nel suo campo di battaglia come Ayrton Senna, Fabio Casartelli, Wouter Weylandt e Jacques Villeneuve, laddove ogni maledetta domenica c’è in palio qualcosa che vale più di una semplice vittoria o di un’ovazione da stadio.
Un giorno ebbe a dire che “le gare non sono per signorine”, forse per raccontare quell’adrenalina micidiale che ti fa sentire immortale e fragilissimo nel medesimo istante: cristalli di Swarovskj lanciati a trecento all’ora sull’asfalto di un circuito, cuori solitari capaci di accettare le sfide per sentirsi vivi, piccoli sognatori incapaci di vivere in mezzo ad una batteria di polli. E allora poco importa se le gare sono pericolose, se sui pass degli addetti ai lavori sta scritto “motor sport is dangerous”, se l’uomo dell’osteria rinfaccerà loro che potevano starsene a casa. Non importa nulla perchè questi atleti – a qualunque rango essi appartengano – sono come talpe che ogni tanto fiutano l’aria emergendo dalla terra. Magari schifati, avvertono il bisogno di rientrare nel loro mondo per firmarsi una vita da protagonisti, accettando la dura legge dello sport: non esistono numeri due, perdere è morire. Il talento e l’essere istrione erano l’arma di questo ragazzo romagnolo che ora l’Italia sportiva piange: lo piangono le mamme perchè tiene l’età di un figlio, lo piangono i giovani per quel sorriso divertito col quale si presentava, lo piangono i grandi e i rivali della MotoGp perchè dietro ogni campione è nascosta sempre la possibilità di migliorarsi e perfezionare i prodotti. Oggi il pianto ha il sapore di un lunghissimo applauso.
Quel corpo giovane steso sull’asfalto rimarrà un fotogramma d’insopportabile memoria. E, forse, l’occasione di un più pensato affetto verso tutti quei ragazzi che – strattonati ferocemente da un sogno – ogni maledetta domenica entrano nei loro moderni campi di battaglia per firmare pagine di epica sportiva e umana. La morte è l’unico avversario che non ha soggezione di loro: arriva improvvisa e sbaraglia la concorrenza con una freddezza irripetibile che non ammette ambiguità. Di fronte a lei resta solo da vedere come si muore; come in ogni competizione resta da vedere se si vince o si perde da uomini. Tutto il resto sono semplici corollari di un teorema già abbozzato.
In chiesa si pregano i santi e a loro – che magari ne farebbero volentieri a meno – si dedicano altarini e giaculatorie quotidiane. Di Marco Simoncelli probabilmente non vedremo a breve una statua in nessuna chiesa cattolica. Resta il fatto, però, che chi oggi cerca Dio nella polvere della strada innamorandosi delle liturgie giovani non potrà fare a meno di passare vicino alla sua immagine e strizzargli magari l’occhio. Per averci insegnato che la santità passa attraverso l’umile lavoro quotidiano fatto con passione, amore e inesausta follia. Perchè a morire nuovi di zecca per non aver trovato il coraggio di rischiare, non è per niente rendere lode a Colui che ha messo nelle tasche talenti d’una bellezza insopportabile. E se Dio qualcuno l’ha fatto nascere veloce, correre è la maniera più bella per sdebitarsi. Riposa in pace, Sic!

La parola al chirurgo
Cari genitori di Sic
L’ultima corsa verso l’abbraccio che ci attende

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