Glielo hanno detto in tanti, sin dagli albori della sua missione. Prima a Lui e in seguito a chi di Lui accetterà di diventare discepolo: “dovresti essere più diplomatico, ghermire le questioni con più calma, tacere un po’ di più, guardare chi bazzica attorno prima di aprir bocca, imparare a prendere tempo”. Poco più che sillabe al vento per il Rabbì di Nazareth: strappare la simpatia non è mai stata per Lui un’esigenza, men che meno svendersi alla storia per poi essere decretato magno dagli studiosi. Per Lui la storia la scriveranno i perdenti, quella scritta dai vincitori è la storia degli uomini che oggi c’è, domani una guerra cancellerà. Quel che è certo sotto il cielo di Galilea è che il prezzo sarà altissimo e pur di metterlo a morte avversari tra loro conclamati saranno disposti all’alleanza. Farisei ed erodiani, cane e gatto, cacciatore e preda: gli opposti che oggi misteriosamente inanellano un’alleanza. “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni secondo verità”: come sono prevedibili gli uomini in fatto di adulazioni. Disposti pure a riconoscerne l’autorità di Maestro – con chissà che prurito di gelosia – pur di trarlo poi in inganno. “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” Volete giocare a guardia e ladri con Me, signori? Avanti! Non vi risponderò mai e poi mai di no: avete già messo in allerta i romani per denunciare Me e il mio Regno e farmi fuori. Volete che non me ne fossi accorto? Tranquilli: non vi risponderò mai di sì, m’accusereste d’essere contro Dio, la Legge, il popolo, i nostri padri. Né sì né no perché la trappola non funziona. Semplicemente “mostratemi la moneta del tributo”. Basterebbe – dal crocicchio della strada – squadrare il loro sguardo per capire che la faccenda è conclusa anzitempo, con annessa vergogna degli organizzatori: i carnefici diventano vittime, chi mostra la moneta dimostra di possederla, chi la possiede ha già trasgredito al comandamento, quel comandamento al quale s’erano aggrappati per compromettere il Rabbì Nazareno.
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno.Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
(Dal Vangelo di Matteo cap. 22 vv 15-21)
Mai avrebbe usato la satira Lui: sarebbe stato più il rischio d’avvertire un tono di giudizio invece che la passione della costruzione. L’umorismo, invece, è un marchio di Sua fabbricazione perché è un invito ad alzare lo sguardo, a rispettare Cesare e nello stesso tempo farlo sedere sul giusto sgabello rispetto a Dio: “rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Fosse per Lui nulla gliene sarebbe importato di quella moneta. Come nulla gli sarebbe mai importato – in quei mille giorni che vanno dal lago al Golgota – di accendere polemiche; ma a botta dovrà sempre seguire risposta per non far somigliare il Regno di Lassù ad un anfiteatro di molluschi o un laboratorio di pensieri senz’anima. Così chi volle con malizia incastrarlo, incastrato tace e riannoda i passi verso casa.
I suoi successori – a Morte avvenuta – di Cesare tesseranno lodi, sovente e purtroppo. E a Cesare verseranno un obolo di spaventosa portata, magari tagliando su quell’unico obolo che spetterebbe al Signore della storia. Ma tant’è, la differenza si vede eccome: Lui parla – su di una barca ormeggiata, sul cocuzzolo di un monte, sui cubi di granito, sullo scranno di un peccatore – e il popolo pende dalle sue labbra carnose d’espressione e seducenti nel linguaggio; gli altri parleranno dentro templi semivuoti e polverosi e scalderanno l’aria di sbadigli assonnati. Perché – manipolato geneticamente – il Suo messaggio non rende come al naturale. “Io sono il Signore e non ce n’è un altro”. (Is 45,1-6) Difficile accusarlo di protagonismo perché Costui non è come gli altri; è strano per lo meno. Se lo segui promette persecuzioni, se Gli si chiede dove abita risponde che non ha dove posare il capo. Carriera promessa sarà quella di lavare i piedi ai rifiutati. Morirà fuori dalle mura per essere maledetto tra i maledetti. Ti chiede di rompere l’assedio della solitudine per far banda con Lui. Invece di arrenderti ti chiede di tener duro; invece di apparire, essere; al posto della facciata, la realtà. Al posto della maschera, il volto scoperto. Invece di svenderti, essere te stesso.
La santità del Vangelo parla al mio cuore. Pensate ai libri dei filosofi, con tutta la loro pompa: quale piccola cosa sembrano a suo confronto! Può un libro dalla fede tanto sublime e tanto semplice essere opera degli uomini? Può essere che colui di cui si scrive la storia non sia egli stesso che un uomo? (…) Si obietterà che la storia narrata dal Vangelo è inventata di sana pianta. Amico mio, non è così che s’inventa; e del resto i fatti di Socrate, di cui nessuno dubita, sono meno attestati di quelli di Gesù Cristo. Che più uomini si siano messi d’accordo per inventare questo libro sarebbe certo più inconcepibile che se fosse stato uno solo a fornirne l’argomento (…). Il Vangelo ha accenti di verità tanto grandi, tanto meravigliosi, tanto chiaramente inimitabili, che l’inventore dovrebbe essere ancora più grande del protagonista” (J. J. Rousseau, Emile o dell’educazione)
Istruzioni per l’uso: per non essere schiavi di fronte a nessuno. E non confondere Dio con un topo al quale tendere una trappola.