wembley-stadiumIn tempo di crisi, capita di parlare di bene comune, spesso a sproposito. Soprattutto perché, scomparsa una mentalità del dono, tutto ciò che non essendo nostra personale proprietà è tuttavia di tutti –  perché bene della comunità (qualunque essa sia) – è percepito in realtà come qualcosa di “perso”, come un bene di nessuno.

Forse questa è una delle conseguenze della perdita di una mentalità del dono, del rispetto del lavoro e dell’impegno altrui, e forse anche del porci domande sulle cose. Perché se una cosa è fatta, è perché qualcuno l’ha fatta. Senza dubbio si può migliorare. Intanto, qualcuno si è preso la briga di farlo. Non che ci sia bisogno di un applauso in piazza per tale motivo, ma almeno rendersi conto che “qualcosa c’è”, qualcosa è stato fatto. Magari con fatica, per la macchinosa burocrazia che purtroppo da secoli affligge il Paese. Ma c’è, è stato fatto, non si può negare.

E questa semplice presa di coscienza sarebbe un punto di partenza molto più costruttivo del susseguirsi di polemiche senza fine, tante delle quali nate a priori e prive di qualunque reale fondamento.

Ricordo ancora adesso l’applauso più difficile e sofferto che don Giosy Cento riuscì a strappare al suo pubblico, in quel di Viterbo, il 27 maggio scorso… l’applauso a favore dei buoni amministratori, con la seguente, accurata postilla di incoraggiamento: “perché ce ne sono!”. Già, sembra impossibile, ma esistono. Ci sono tanti imbroglioni, tanti ladruncoli travestiti da benefattori, tanti furbetti… perché questo non si può negare. Ma c’è anche chi lavora senza troppe pretese di notorietà, magari nell’ombra, ma che si impegna al massimo per la buona riuscita e che ha davvero a cuore il bene comune.

 

Penso a proteste e polemiche riguardanti la gestione dell’otto per mille… io mi faccio un’altra domanda: quanti cinque per mille non sono compilati solo per pigrizia? A volte ci sono tante piccole cose: piccoli, insignificanti gesti della nostra vita in base ai quali stabiliamo la cifra della nostra coerenza e del nostro impegno concreto verso la comunità umana (famiglia, Chiesa, società civile). Nostro, di ciascuno singolarmente che, solo sommato agli altri “tu”, diventa un “noi” dotato della forza della convinzione, più che della forza dei numeri (a cui personalmente credo, poiché non lo ritengo affatto criterio di Verità).

Un esempio concreto, forse insignificante, lo vedo nella mia zona. C’è una pista di atletica: non è in tartan, ma in cemento armato, non è regolamentare, non ha le corsie e i posti di blocchi e non ti dà la sensazione di essere a Wembley: ma è gratuita, a disposizione di tutti, e ha anche un campo da calcio con tanto di porte con reti, al proprio interno (cosa rarissima!). Cosa non va? Bottiglie rotte, cocci, rifiuti in giro, nonostante ci siano molti cestini… allora, di chi è la colpa? Dell’amministrazione, dei politici o dell’incuria e dell’inciviltà? E, se i maligni subito assoceranno questa indisciplina a cattive abitudini giovanili, per onor di cronaca vanno segnalati utilizzi impropri anche da parte di anziani, che la utilizzano impropriamente come pascolo per il proprio animale domestico.

Sicuramente, questo è solo uno dei tanti esempi possibili. Che spero possa aiutare a ben visualizzare come tutti siamo realmente responsabili del benessere nostro e altrui. Tante cose andrebbero fatte o vistosamente migliorate, ma mi domando: quante invece già le abbiamo ma le sprechiamo, le sfruttiamo male, le imbrattiamo…? Spesso non c’è malizia in questo, ma tanta superficialità e pressapochismo, uniti forse a scarsa considerazione di sé, sulla base dei quali siamo portati a pensare che il nostro apporto, positivo o negativo, sia sostanzialmente ininfluente. E questa giustificazione ci appaga e ci fa accontentare della nostra quotidiana inerzia.

Ma non è così! La responsabilità personale è questione che riguarda tutti e ciascuno. Una carta gettata in terra non è nulla: è una carta in più a imbrattare il selciato. Che, al contrario, se raccolta, contribuisce al benessere dell’intera comunità.

Insomma, siamo tutti campioni di chiacchiere, ma poco propensi a dedicarci alla fase realizzativa e propositiva, che dovrebbe seguire il nostro borbottio. Chi lo sa, forse, come canta Van de Sfroos, è un difetto tutto italiano quest’attitudine a stare “sempre in prima fila, quando finisce la battaglia”.*

Don Milani, al contrario, contrapponeva allo slogan fascista “Me ne frego” il suo “I care”. Perché se “ci tengo”, se “mi interessa”, non mi posso accontentare del  pressapochismo di fronte alle disgrazie o alle situazioni che, semplicemente, non riguardano in modo diretto la nostra vita. Essere interessati alla vita intorno a noi è il primo passo, forse, per farci davvero prossimi a chi ha più bisogno, che è poi l’invito di Cristo nella Parabola del Samaritano (cfr. Lc 10, 25 – 37).

Un pioniere dell’educazione, quale fu don Giovanni Bosco, ebbe modo di sottolineare l’importanza di puntare innanzitutto a formare buoni cittadini, prima ancora che buoni cristiani. E mi trovo completamente d’accordo, perché penso sia una grande illusione pensare che basta indottrinare la gente con qualche definizione catechistica. La spiritualità che richiede Cristo è esigente e molto concreta. Per questo, non è possibile pensare di aspirare alla santità quando si evita accuratamente di assumersi un impegno civile, per un bene comune, che non è (solo) della Chiesa, ma che coinvolge l’intera società civile, nel suo complesso.

 

*Tradotto da “Poor’Italia”

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