L’emozione inaspettata, che canta Raf, pare farsi carne e assumere i lineamenti giovani e scanzonati del volto del sudafricano Oscar Pistorius. Un sorriso guascone e uno sguardo birichino accompagnano i suoi movimenti, quelli di chi sa il fatto suo, quelli di chi non si è mai arreso, di fronte a niente e a nessuno, ma che nemmeno ha preteso favori o regalie. Ha rincorso una chance, una possibilità, da conquistarsi come tutti gli altri, misurandosi nel tentativo di raggiungere il tempo minimo richiesto per qualificarsi ai Mondiali. Solo questo ha chiesto: poterci provare. Non arrivarci come un “marziano delle Paralimpiadi” oppure per aver ricevuto una “wild card” che gli avrebbe fatto – inevitabilmente – ricoprire il ruolo di guest star della serata, rincorso dai giornalisti, scomodo a tanti, inviso e forse invidiato da una fetta più o meno equivalente agli estimatori che si era conquistato, commuovendo il mondo intero.
“IMPOSSIBLE IS NOTHING” (niente è impossibile). La famosa campagna pubblicitaria di un noto marchio sportivo, alla quale prese parte attivamente, potrebbe fare da titolo alla sua storia. Una storia nata diversa fin dall’inizio, quasi si fosse allenato dalla nascita a essere eccezionale, un caso estremo, disposto a danzare sulla linea del fuorigioco, al limite del regolamento, al limite del pensabile, al limite dell’immaginabile e dello sperabile, al limite del possibile. Ma oltre i limiti dell’ideologia e della staticità mentale (ben più rischiosa di quella fisica e motoria); disposto ad assumersi la responsabilità dei pionieri, nel difficile compito, che non è molto dissimile da quello di santi e profeti, di proporsi in prima persona per dare dimostrazione che allargare i propri orizzonti è possibile. Si può fare. E te ne dà garanzia con quel sorriso dis–armante di chi sa che la pazienza è necessaria, per arrivare al risultato voluto, ma ce ne vuole ancora di più per aspettare che gli altri “capiscano”, che escano fuori dai loro angusti orizzonti, che riescano a uscire dalla rotazione intorno al proprio asse, per riuscire a guardare con occhi diversi dai propri. Lui ha sempre saputo che non è cosa facile, e ha imparato ad aspettare.
Ci sono muri difficili da abbattere. Alcuni sembrano del tutto infrangibili. Ma nessuno è davvero incrollabile. Dopo il muro di Berlino, un altro, che pareva invalicabile, è stato superato. Non mi riferisco alla soglia brillantemente abbassata a 45’07”, al fatidico 45’23” non più spauracchio ma obiettivo raggiunto e superato. C’è ben altro in gioco. In modo altamente simbolico, ma – spero e mi auguro – non soltanto, è stato abbattuto il muro tra normalità e anormalità, tra abilità e disabilità. Perché, sulla pista di atletica, vedremo correre un ragazzo senza le gambe, in mezzo a tanti atleti. Atleta tra gli atleti, che – come gli altri atleti – ha gareggiato, con le sue protesi, per ottenere il suo posto in griglia.
Sì, anche senza gambe, si può correre… un ossimoro che celebra la possibilità di riscatto di tutti quelli considerati dei perdenti nati, nati per essere perdenti, ultimi – nello sport e nella vita. Ai margini, in fondo allo schieramento, magari non fuori dai giochi, no: magari un posticino glielo si trova, ma in disparte, non troppo in vista, si badi bene, perché la prima fila e i riflettori spettano a chi è “tutto intero”, a chi è “normale”. E invece no. Dal confine ci si può affrancare, ci si può guadagnare quello che altri hanno da sempre, quasi senza fare fatica. Si tratta di un ossimoro che protegge i sogni, perché nessuno possa spezzarne le ali, neanche a quelli più impegnativi, alti, di rara bellezza e non minore difficoltà di riuscita…
Ma non fu un caso. Nonostante non gli fosse nuova la corsa, galeotto fu un infortunio, occorsogli giocando a rugby (perché fu vivace da sempre, il ragazzo!), che lo costrinse a concentrarsi sull’atletica più che sulla mischia e sulla touche. Solo così, la sua caparbietà ha reso tremendamente concreto e vivo quel modo di dire secondo il quale “alcuni, alla nascita, partono svantaggiati e hanno bisogno di correre per raggiungere gli altri”. Evidentemente, Oscar l’ha preso alla lettera.
Tanti si domandano se rappresenti o no i disabili, lasciando intendere che – forse – lui è un caso talmente raro da non rappresentare altri che se stesso. Io nutro la speranza, mai doma, che possa contribuire a farci capire che non esistono “casi”, ma solo persone, di cui ogni esemplare è appunto unico…
Tuttavia una risposta non la so dare, anche perché non sono probabilmente la persona adatta. Con certezza mi accompagnano, tuttavia, delle evidenze: mi ha insegnato a vivere con il sorriso, senza arrendermi mai, e ha spezzato il mio pregiudizio su uno sport che non conoscevo. Più di tutto, però, ha rinsaldato la mia viva convinzione: se hai un sogno gigante, che ti sembra inafferrabile e superiore alle tue forze, non ti arrendere; vale la pena correre, rischiare, conquistare, magari con fatica immane, ogni centimetro che conduce al sospirato traguardo. Perché, una volta raggiunto, non c’è spazio per altro, non esiste astio o rancore: il sorriso frantuma invidie, gelosie e incredulità!
Continua a correre, Oscar! Sulle tue spalle viaggiano anche i sogni di chi ha perso il coraggio di farli volare nel cielo, come aquiloni. Continua a correre. La tua corsa porta speranza nel mondo!
* Mi permetto di consigliare la lettura di questi tre articoli, che sono serviti anche a me:
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