Diritti, doveri, doni… doni quotidiani, scorti e non scorti. Ogni giorno può essere uguale all’altro, oppure può mostrare il suo dono speciale, se siamo capaci di riscoprire il significato di un grazie che si estenda nel tempo, per ogni tempo e per ogni luogo. Perché ogni tempo e ogni luogo merita il proprio grazie.
GRAZIE. Mai parola più semplice fu sottovalutata nel suo straordinario potere.
La moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mc 6, 30 – 44) è paradigma di condivisione: poco e molto sono relativi, l’offerta è totale. Solo il ragazzo offre il poco, che è anche il tutto che ha. Nulla vieta che qualcun altro potesse avere avuto anche di più, ma che si sia scoraggiato di fronte alla propria pochezza. Gesù moltiplica, sulla generosità giovane e sprovveduta (o fiduciosa?) d’un ragazzo. Ma, concretamente, cosa fa? Nessuna formula magica, né richieste al Padre che a questo pane e a questo pesce capiti qualcosa di strano, non pronuncia. No, semplicemente, Gesù rende grazie. Ancora una volta, Gesù è concretissimo nella sua richiesta. Non ci chiede di fare cose enormi, la sua grande capacità educativa sta nell’essere un esempio. Per chi gli chiede come pregare, non intavola conferenze sulle preghiere, mostra quale rapporto debba crearsi nella preghiera. Un rapporto confidente e grato. Gesù riceve quei pani e quei pesci come un dono, un dono gradito, utile più per gli altri che per sé… eppure è lui che ringrazia. Ringraziamento perché quei pani possano sfamare migliaia di persone. E quel ringraziamento è così efficace che saranno sfamati migliaia di uomini, donne e bambini. E quel dono è così prezioso, che Gesù si premura di fare in modo che nulla vada sprecato. Nulla di ciò che non lui aveva guadagnato, ma che aveva a sua volta ricevuto in dono. Per lui è di primaria importanza il dono ricevuto, tanto che vuole essere sicuro che nulla vada perduto. Credo che per tutti noi sia piuttosto difficile: finché non siamo direttamente coinvolti , non valorizziamo la fatica ‘firmata’ da altri e tendiamo a considerare tutto dovuto, scontato, normale. Invece, proprio in virtù del fatto che è gratis, è di valore illimitato: è proprio questo il valore del dono, che risiede nell’essere indipendente dalla mia realizzazione, dal mio intervento personale. Tutto ciò che è dono è qualcosa che arriva da fuori di me, mi raggiunge e mi oltrepassa, cioè va oltre. Non lo posso afferrare, anche se lo posso intuire: così come è possibile intuire la fatica, il pensiero, la ricerca, la premura, l’attenzione che trapelano da un regalo fatto con il cuore.
Eucaristia significa “rendimento di grazie”(Lc 22, 19). E così si istituì il rito nuovo che sostituì l’antico. Un rito che trova la sua condensazione nel dire grazie, consapevole che risieda proprio nella gratitudine il più elevato livello dell’amore umano. Perché la gratitudine indica piena consapevolezza, responsabilità, attenzione, lucidità, cura. Significa innanzitutto accorgersi. Accorgersi dell’altro e della sua presenza. Accorgersi del suo valore e di qualcosa che è più di un’utilità (che ormai sa troppo di utilitarismo e logica della produttività). Significa soprattutto essere capaci di dire, con le parole e coi fatti: “sono contento che tu esista, la tua semplice esistenza rende la mia vita più bella”. Il pane, il vino, il lavoro, la mensa, gli amici, la famiglia. Cose semplici, ma importanti. Di cui rendere grazie, per sé ma anche insieme con gli altri. Da più di duemila anni questa è la raccomandazione che ci ha lasciato Cristo: “ricordatevi di dire grazie”.
La preghiera più bella è il ringraziamento perché riconosce il legame con Dio, riconosce, al contempo, l’indispensabilità del nostro fidarci di Lui e la preziosità della Sua presenza. Sì, perché spesso non ce ne rendiamo conto, ma più importante del “fare”, c’è il dono della “presenza”. Non vado a filosofare, pensiamo a quale grande confidenza aver ricevuto o quale grande sollievo è stato poter dire a un amico: “Grazie, perché so che ci sei sempre”. È il grazie più bello, perché non si riferisce a un fatto in particolare, non c’è bisogno che ci sia stato un aiuto chiesto o ricevuto, è semplicemente il riconoscimento di una garanzia. Una garanzia su cui poter contare, che è più di una vicinanza, è una presenza, a volte più discreta, a volte meno, ma mai ingombrante e sempre disponibile, non secondo l’utile ma secondo l’intuizione della necessità dell’amico.
Diceva Einstein: «Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente sia un miracolo. L’altro è pensare che tutto sia un miracolo». Pensare che tutto sia un miracolo è in realtà alieno dal fideismo sterile che potrebbe apparire in agguato: al contrario, contiene il germe di quello stupore ingenuo che conduce alla ricerca e alla scoperta, perché ho lo stesso stupore che nutre il bambino che si guarda intorno e chiede, con semplicità: perché? Inoltre, credo che vedere tutto come un miracolo aiuti a leggere la vita come un dono. E vivere la vita come un dono, attraverso i piccoli grandi doni di ogni giorno, sviluppa la gratitudine. Ogni tanto mi viene il dubbio che la fede abbia una comodità immensa: dà la possibilità di “sfogare” questa grande gratitudine per le cose belle. Oserei dire che è liberante avere un “Datore dei doni”. Lo è perché trova un interlocutore per il rendimento di grazie. Perché una volta scoperta la Bellezza e una volta appurato che l’artefice non sono io né sono altri, chi potrei ringraziare per la meraviglia?