Abbiamo tutti sotto gli occhi le immagini inquietanti dei profughi che, ormai quotidianamente, sbarcano, in condizioni disumane, sulle coste di Lampedusa. La disperazione nei loro occhi ci avverte di come si sia toccato il fondo, di come la loro dignità sia stata inesorabilmente calpestata e vituperata. E, giustamente, tante sono le organizzazioni, governative e non, che si adoperano in loro difesa e in loro aiuto. Testimonianza implacabile di colpevolezza (anche nei nostri confronti) di quella parte di mondo volutamente dimenticata – ai nostri occhi – lasciata marcire all’ombra di un tentativo di progresso e di democrazia ancora di là da venire, spesso, magari, affascinata da una visione del mondo occidentale idealizzata come modello a cui aspirare (ignorando, con ogni probabilità, scandali, presunzioni e contraddizioni che lo abitano e che ne sono parte integrante).
Eppure, anche se so che potrebbe sembrare paradossale, guardando il rovescio della medaglia, non siamo messi meglio. Mi suona piuttosto stonato sentire che ci sia bisogno di una sorta di accordo della stampa inglese, perché il principe William e consorte non siano perseguitati (e per breve periodo, tra l’altro) dai paparazzi. Quelli che, pur nel mistero in cui resta avvolta la morte della madre del principe, non restano immuni da colpe e su cui pesa l’ingombrante dubbio di una complicità, diretta o indiretta, con l’incidente occorsole. Molti avranno da obiettare che tutto questo interesse della stampa è giustificato, oltre che dall’appartenenza alla casa reale, anche dalla scelta degli sposi di concedere ampio risalto mediatico al loro matrimonio. Mi pare piuttosto ingenuo fermarsi a questo e accettarlo come alibi che giustifichi ogni invadenza, propria e altrui. È evidente come, dopo la morte di Diana, complice le marachelle di suo figlio e le scelte capricciose dell’ex marito, la Corona britannica non ha passato un periodo di particolare lustro, agli occhi dei propri sudditi e non solo. Logico, quindi, aspettarsi da parte della Monarchia inglese un tentativo di ridare spolvero a un’istituzione che era ormai diventata un po’ sottotono e rischiava di diventare pezzo d’antiquariato o evento da mostra istruttiva per le scolaresche. Ma incapace d’essere – ancora – viva.
Tutti siamo complici di questo gioco al massacro, di cui – spesso – sono vittime anche i bambini, buttati sotto i riflettori anche in tenera età, solo perché “figli di”, che pare giustificazione sufficiente per farne una star già al momento della nascita, con esclusive miliardarie e ricavi folli, che qualcuno subdolamente afferma andare in beneficenza. No, non intendo mettere in discussione né la beneficenza, né chi afferma di farla. La mia critica va ad un modo (e moda) di fare per cui non esistono confini, limiti o soglie da oltrepassare; tutto cuoce nel medesimo calderone e tutto è trattato come carne da macello da dare in pasto alle telecamere. Che si tratti del primogenito di una star, della tragedia di un naufragio, di un omicidio enigmatico, oppure di un matrimonio importante poco cambia. Tutto fa brodo, purché sia appetibile alla vista di telecamere e obiettivi, presi da quel “morbo di Cronac” menzionato da Alessandro Bergonzoni, che pare rendere insaziabilmente invadente chiunque ne venga colpito. E nessuno ne è incolpevole. Chi di questi scoop fa fonte di guadagno (e non solo i giornalisti, ma gli stessi protagonisti che, adeguandosi supini, accettano questo sfruttamento indecoroso della propria immagine). Ma anche noi stessi, quando, comprando questi giornali, queste riviste, assistendo a questi spettacoli, diamo ragione di un meccanismo perverso, asservito al denaro, che fa dell’immagine il suo unico idolo.
Ecco, quindi come, rovesciando la medaglia, troviamo due modi diversi di mancare di rispetto, di invadere territori che andrebbero mantenuti gelosamente privati, custoditi dalla riservatezza necessaria e naturale in ogni essere umano, per riscoprire e coltivare la serenità delle cose semplici, a cui a volte rinunciamo, e consideriamo ‘pegno del successo’.
Come fosse necessario pagarne uno. Come se il successo e la celebrità richiedessero, necessariamente di rinunciare alla propria dignità.
E anche la consapevolezza di un limite, di una soglia da rispettare, non solo nei confronti dei “vicini” a noi, a livello affettivo e di condizione sociale, ma anche nei confronti di chi, pur lontano per idee, scelte, stile di vite e anche condizione economica, non per questo merita meno rispetto e meno dignità. Perché questi vanno tributati, indistintamente, ad ogni membro della famiglia umana.
Siamo tutti per una società di eguali, con uguali diritti;ma ci dà fastidio che, ad ogni diritto, corrisponda un dovere che è necessario rispettare perché tale diritto sia rispettato veramente e da tutti. Essere figli d’un principe non è una scelta personale. Né lo è esserlo d’un povero. Non lo è essere in piena salute e non è necessario pagare alcun pegno per questa colpa. Né è, d’altro canto, una colpa essere malati e aver bisogno di cure. Non dovrebbero essere queste diversità di condizione a perseguitare, in bene o in male, la sorte di un uomo: nessuno dovrebbe portare, come un fardello, condizioni che non dipendono da lui.
Ogni uomo che nasce sulla terra contiene in sé la preziosità e la dignità di una vita che è un mistero che ha da dipanarsi lungo il corso della propria esistenza. Le diversità con cui ci incontriamo fanno parte della ricchezza di un’umanità variegata e variopinta, che, nei suoi mille volti, mostra il volto dell’uomo: creatura affascinante e complicata, pur appartenendo al regno animale, mantiene negli occhi un’inestinguibile nostalgia di Cielo, che manifesta nella sua tensione, quotidiana e profonda, verso la Bellezza.
Perché la vita è… estatica! (1)
(1) «La vita non è statica, ma è estatica. In cammino verso qualcosa che è al di là da sé» (I baci non dati, Ermes Ronchi, Paoline, 2007, pag.15)