Solennità della Pasqua di Risurrezione (Anno A)
Pollice in alto. Accendiamo: è la risposta definitiva! Le mura scrostate e millenarie della vecchia città di Gerusalemme erano addormentate nel silenzio: il chiasso del mercato, del baratto e dei tradimenti aveva lasciato il posto alla malinconia di una notte diversa da tutte le altre. Nelle osterie deserte non si parlava d’altro che di quel gruppo di discepoli che, tutto d’un tratto, erano fuggiti in preda alla paura. Gerusalemme sembrava aver smarrito nell’arco di poche ore il volto che le aveva regalato celebrità. In lontananza i greggi celati all’ombra degli ulivi di Betlemme, il grembo che aveva dato vita a quel sogno, che aveva disegnato i primi passi di quell’Uomo, che le aveva regalato il suono malinconico delle sue povere cornamuse. Sembrano millenni di lontananza eppure questo viaggio è durato solo trentatre anni!
Mi son intrufolato anch’io in una di quelle stradine deserte, inzuppate di incensi e di mirre, baciate di sogni, di profumi e impreziosite da frammenti di millenaria civiltà. Mi son nascosto dopo aver smarrito le tracce di quell’Uomo che, aggrappato ad una croce, s’inerpicava solitario su quella nuda collina di Gerusalemme. Lassù penzolava il capitano di una ciurma di folli che aveva osato sfidare le tradizioni millenarie di scribi e farisei. Solo, con la compagnia di una donna e un amico a sfidare la derisione e gli insulti dell’umanità. Tutti gli altri erano fuggiti, prigionieri di un terrore che aveva smantellato le loro umane sicurezze, i loro sogni vincenti, la loro fortezza.
Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba.
Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte.
L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto».
Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli.
Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».
(Dal Vangelo di Matteo cap. 28 vv. 1-10)
E’ ancora notte fonda quando allargo lo sguardo: anche gli animali son ancora sdraiati sul calore della loro paglia ma già in due, tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lanterne che s’accendono, comignoli che iniziano a fumare, donne indaffarate che si pettinano, si vestono, si preparano. Il gallo, nascosto dentro la bottega del calzolaio, accetta la sfida che gli è stata lanciata dall’altra sponda del Cedron, da quel gallo reso famoso dall’infedeltà prevedibile di Pietro. E’ questo loro canto mattutino che mette la musica nei piedi di tre donne che, all’aurora di un mattino ebraico, all’incrocio di tre strade diverse, si rinfacciano la medesima domanda: “Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?”. Terrore di madri, preoccupazione di spose, attesa di innamorati.
La delizia nei vangeli è donna. Hanno paura, ma non tremano, son terrorizzate ma non si dimenticano d’amare, son distrutte ma non smettono di sorridere nei sogni. E al sorgere del mattino, quando il cielo inizia a far sfoggio della sua maestrìa, sciolgono i catenacci della porta e si mettono in viaggio. Non ce la fanno a dimenticare: tornano al sepolcro perché le donne custodiscono le porte della natura che fabbrica vita e reclama amore. Si vergognano di abitare una città che si rifiuta di sognare e manda a morte fuori delle sue mura chi ha sete di cieli nuovi e terra nuova. Per loro è quella domanda: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?” (Lc 24,5).
E seppur lontane e frettolose riconosci nei loro movimenti il genio femminile che vanno partorendo: Maria di Magdala, l’altra Maria, Salome. Più indietro loro, i pavidi fuggiaschi del venerdì santo, i primi sacerdoti dell’umanità, coloro che non hanno retto il peso di quell’attesa: Pietro e Giovanni. Poi Giacomo di Zebedeo, Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo, Filippo. Dietro ogni nome un volto, un frammento di santità, una carezza gettata dall’eternità. Donne che sono pagine di Vangelo, perché “prima di essere un libro scritto con l’inchiostro, il vangelo è un libro dipinto sui volti dei testimoni della Risurrezione” (S. Palumbieri)
Ma di Maria di Nazareth nessun evangelista tratteggia un accenno. L’avevamo lasciata lassù, ieri sera, ad accompagnare quella Bellezza derisa, sbeffeggiata, crocifissa. Oggi un silenzio discreto pennella il suo volto. Stanotte mi è piaciuto sognarla in quel giardino baciato da un vento primaverile, appena dietro il sepolcro, con il cuore che metteva in musica la primavera di quegli istanti, con la mente che ripercorreva il sentiero polveroso che l’ha condotta fin lì. Lei, combattente fedele e mai doma, donna con il coraggio ammantato di discrezione, Madre con gli occhi grondanti lacrime ti distrugge con la sua serenità, ti tormenta con la sua fede, t’incanta con la sua folle attesa. “Raccontaci, Maria – s’interroga la liturgia in un’antica sequenza -: che hai visto sulla via?”. E lei, donna del venerdì santo, esclama: “La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto. Cristo mia speranza è risorto; e vi precede in Galilea”.
E in compagnia di Maria – la Vergine Giovane che alla fontana di Nazareth arrivò a stregare gli occhi dell’Eterno – mi siedo sulla soglia di quel sepolcro trovato vuoto. Le prendo il viso tra le mani, divengo naufrago della sua dolcezza: lineamenti semplici, sorriso profumato di eternità, stanchezza di mamma su quel volto così poco umano. Qualche ruga perché da tanto tempo non conosce il sonno, perché nei suoi unguenti c’erano più lacrime che mirra e aloe, perché il panno per asciugare il volto del Figlio era cucito di silenzio. E in quello sguardo che accarezza il vuoto del sepolcro se ne sta racchiusa una vita di sogni, di attese e di fatiche. M’innamoro di quella serenità e mi tormenta la verità cantata con la poesia da David Maria Turoldo: “No, credere a Pasqua non è /giusta fede:/troppo bello sei a Pasqua!/Fede vera/ è il venerdì Santo/ quando Tu non c’eri/lassù!/” (Turoldo, Canti ultimi, p. 103).
Di fronte alla tua superba grandezza, Maria, m’inabisso nella più timida arrendevolezza perché io sono “uomo del sabato santo”, fatico ad abitare i venerdì santi della storia. Aiutami a dire a tutte le famiglie di questa mia comunità, ai volti giovani che tentano di spiccare voli nella vita, a coloro che – in compagnia di Cristo – s’inerpicano lungo il sentiero ostico della sofferenza, a chi sta smarrendo il gusto affascinante della vita, a chi ha responsabilità politiche, civili ed educative, a chi, seppur lontano, porta nel cuore il fascino e la semplicità di questa terra, a coloro che ricostruiscono sogni, a quanti con me non condividono il dono della fede un augurio “scomodo”: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui, è risorto!” (Lc 24,5)
Pollice in alto: è la Vittoria che ha frantumato l’ultimo rimasuglio della Morte.