Molti di noi portano sul corpo qualche cicatrice, souvenir di un’infanzia irrequieta, di corse a perdifiato e (troppo) brusche frenate.
Ma ci sono ferite che non si vedono ad occhio nudo, che non sono visibili a chi non ci conosce o ci vede per la prima volta, o – anche solo – ci guarda con superficialità; ferite che ci portiamo nel cuore, che ci accompagnano sempre più a lungo di quanto ci augureremmo e vorremmo e che (purtroppo) stentano a richiudere i lembi, fino a darci l’impressione di non riuscire a rimarginarsi mai.
Una tra le frasi bibliche che, a prima vista, appare tra le più truculente e anacronistiche, ci suggerisce invece una tra le più vivide e forti immagini per la realtà di ogni tempo: «dalle sue piaghe siamo stati guariti» (1Pt 2, 24). Una ferita fa male anche solo a vederla, fa male persino quando, richiusa, ne resta la cicatrice. Per questo cerchiamo di nasconderla: non solo agli occhi altrui, ma persino ai nostri. Fa male ricevere una lieve pressione, anche solo nelle vicinanze: per questo non solo non la mostriamo, ma non permettiamo a nessuno neanche di sfiorarla (solo, talvolta, avviciniamo, circospetti, le nostre dita, con delicatezza, nella speranza di trovare i due lembi un po’ più chiusi e la pelle un po’ più resistente dei giorni precedenti). Non la tocchiamo, per non provocarci dolore, ma neppure la guardiamo, perché anche la sola visione fa male, ricordandoci ogni istante di quella ferita, il modo in cui l’abbiamo ricevuta, accompagnato al pensiero se fosse stato possibile o meno evitarla…
E tutto questo è – se possibile – ulteriormente amplificato con le ferite dell’anima, che, spesso, sono la colonna sonora di un prolungato periodo della nostra vita. Si tratta di ‘segni particolari’, ad hoc, che diventano assolutamente distintivi e che finiscono col determinare il nostro essere, incuneandosi nel nostro vissuto esperienziale in modo indelebile: amori finiti, storie ‘chiuse male’, tradimenti, delusioni, lutti che ci hanno segnato in modo particolarmente incisivo… sono tutte quelle esperienze per le quali, in un momento di lucida onestà, ci troviamo a dire: «Ci penso ancora…». Come ad ammettere – finalmente –, almeno con noi stessi, che non è ancora – totalmente – ‘acqua passata’; non si tratta ancora di un’esperienza ormai decantata, rimuginata, completamente ‘masticata’, di cui abbiamo raccolto il germe di saggezza per il tempo a venire.
Difficile trovare una medicina forte e sicura, capace di guarire questo tipo di ferite, o, almeno, lenire un po’ il dolore. Perché la rabbia e il risentimento, quand’anche ci siano stati, scemano, per lasciare posto all’amarezza. Nella vita, è inevitabile subire delle lacerazioni: è l’altra faccia di ogni legame, è il rischio che corriamo quando non cediamo alla tentazione di ‘non lasciarci coinvolgere’ dallo sguardo dell’altro che ci interroga. Ma la mia domanda, a questo punto, diventa audace: più che guarire una ferita, si potrà mai guarire attraverso una ferita?
Sembra impossibile. Anzi: assurdo e paradossale. Ma, anche stavolta, la liturgia ci viene in soccorso con un’immagine altamente significativa: «dal fianco aperto di Cristo uscì sangue e acqua». Scelgo volutamente questa traduzione, dal momento che aiuta a vedere oltre. Oltre all’abitudine con cui ascoltiamo queste parole, prestando poca attenzione al significato di ciascuna di esse. Solo se la ferita si fa apertura diventa occasione e opportunità. Solo se la ferita diventa feritoia, che s’apre – pur se indifesa, pur con timida discrezione – all’esterno. Solo se si lascia attraversare, diventando strumento di comunicazione, potremo guardare al futuro, senza perdere il contatto con il passato.
Del resto, per un cristiano, la Croce fa da ponte tra il Venerdì Santo e la Pasqua, quasi a simboleggiare che non si tratta di una strada senza uscita, ma di un ‘traforo’ da attraversare. Con consapevolezza, speranza e voglia di riscatto!