Roma (di don Marco Pozza) – Correre è un verbo comune: corre il medico di base, l’ortopedico, la mamma e la nonna, lo studente e il farmacista, il direttore e il prete, l’atleta e il professore. Correre è un verbo figurato perchè lo si usa in tanti campi semantici: dalla medicina alla botanica, dalla sessuologia alla mistica, dall’altare al bancone del bar. Lo usa don Giulio, ma anche il sindaco, il prefetto, il fruttivendolo. Forse perchè correre è un po’ come vivere: si corre per vivere. Oppure si vive per correre, cioè per trovare al più presto un motivo per tenersi accesi. E iniziare a correre.
Accettare la sfida della corsa è questo. Ma è infinitamente di più. Perchè lei è una dama smaliziata: avanza perchè tu t’avvicini ma nel mentre t’addentri verso di lei, s’inabissa nell’oscuro e scompare. Per poi riapparire altrove e rimettersi a danzare, fluttuare, stregare. E tu divori chilometri per inseguirla, mangi la polvere del sentiero, ne bestemmi la sua bellezza, cerchi di spostare il sogno. Ma non ci riesci perchè lei è bella, troppo bella: è quasi la vita stessa. E allora lei diventa il troppo che incoraggia e scoraggia: troppo caldo, troppo freddo, troppa neve, troppo vento. Troppo sonno per partire. No: non c’è armistizio in quest’eccitazione perchè lei fa quello che vuole, perchè chi nasce bello può tutto. Prendere o lasciare. Ti prende e ti sposta, ti trapianta altrove, ti spinge se ti fermi, ti massacra se le corri incontro, ti strega se la maledici. E’ una tempesta, un fulmine, una freccia di Cupido. E’ una spada di Damocle e tu cerchi riparo: sotto un albero, al limite di un pagliaio, sotto una tettoia. E se il fisico è pesante vomiti perchè sei un proletario di fronte a lei: vomiti e sporchi la polvere, ti guardano tutti, il fisico chiede la resa, il Calvario in confronto era un giardino. Lei ti succhia, ti violenta, ti massacra, ti toglie la voglia e se ne infischia se sei ridotto ad uno straccio. Dici “basta, mi arrendo”.
E lei ritorna: bella, spietata, malefica. D’una bellezza saporita.
E tutto è rimandato.
Riparte l’intrigo. Una, due, tre. Infinite volte.
(pensieri tratti dai miei appunti di viaggio verso Milano 2011)

maratona

Potevo scrivervi anche stavolta tempi, dei ritmi e delle ripetute. Parlarvi della testa pesante, dei muscoli affaticati e della fatica di correre. Tenevo tanti modi per dirvi la difficoltà – e forse anche la tentazione d’abbandonare tutto – di queste due settimane appena trascorse (dopo la Belluno – Feltre 2011). Ho scelto di aprire la finestra della mia anima per dare voce ai miei pensieri. Perchè un atleta che corre non sono solo muscoli che si muovono e polvere che si alza; ma sono anche tantissimi pensieri che affiorano, altrettante immagini che s’accendono, mille piccole voci che danno sapore e qualità alle lunghe ore d’allenamento.
Milano è una città del Nord-Italia, la capitale del commercio e dell’economia, la sede di una delle Borse più importanti del mondo. La città di Silvio Berlusconi e dei suoi amati giudici, la sede della diocesi più grande d’Italia e de La Gazzetta dello Sport. E’ il nord che lavora, gioisce e s’affatica. La città della cultura, dello spettacolo e dello sport.
Eppure sono dieci settimane che Milano, nella mia testa, è la sede della prossima avventura sportiva ed educativa. E per nulla al mondo permetterò che fattori esterni m’inducano nella tentazione di mollare la presa.

“Come stai?” gli domandò il prete.
Dorando sospira: “Ho voglia di correre”. Risposta sempre uguale. Oggi aggiunge: “Vengo da Modena, dove ho accompagnato due clienti. Fare l’autista mi piace, ma ho molta nostalgia delle piste, delle strade della maratona, della gente che grida il nome degli atleti. Vedete, don Ettore, correre una maratona è come vivere un’intera vita in due tre ore, non so se mi spiego. E’ un concentrato di gioie e di dolori. Ci vuole la forza di volontà per superare i momenti di sconforto, ci vuole resistenza al dolore per andare avanti quando i piedi si coprono di piaghe, i polmoni sembrano scoppiare e la vista si appanna. Non vuoi fermarti, perchè devi vivere, devi comunque arrivare, devi essere dentro tutto intero alla bellissima fatica. Mi manca quella fatica, quel sudare l’anima. Nonostante la sofferenza, sei convinto di essere in paradiso, non all’inferno…”
(G. Pederiali, Il sogno del maratoneta. il romanzo di Dorando Pietri, Garzanti, Milano 2008)

In questi giorni me l’ha detto una mia amica per telefono. E me lo sono ripetuto quando stava per spezzarsi definitivamente quel sottilissimo filo che unisce gambe, cervello e anima: “Mi manca quella fatica, quel sudare l’anima. Nonostante la sofferenza, sei convinto di essere in paradiso, non all’inferno”. Mi sarebbero mancate troppe cose se avessi mollato!
Ragione per cui barcollo, ma non mollo!

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