Come i gatti. D’altronde nella mia terra s’abbina proprio l’uomo di Vicenza con il gatto quando si vuole usare lo sfottò come alfabeto laico con il quale dialogare. I gatti, però, oltre che da mangiare, lassù sono famosi anche per le loro innumerevoli vite: fino a sette possono arrivare.
Un modo simpatico per dire che sono duri a morire.
La settimana scorsa doveva iniziare la mia preparazione alla Maratona di Milano 2011. Doveva, ma una fortissima e inaspettata allergia ha pensato bene di metterci lo zampino per scompigliare e innervosire un po’ le carte. Hanno fatto bunga-bunga tra di loro e il mio fisico è svenuto! Una di quelle allergie con le quali convivo fin da bambino e che nei mesi primaverili hanno la rarissima capacità di mettermi per terra senza margine di fraintendimento e di ribellione: se manca completamente il respiro, cosa potrà fare l’uomo? Lo dice anche il salmista: “se togli loro il respiro, muoiono” (Sal 103). Ma nella mia grammatica la parola resa non ha ancora cittadinanza, non ci si deve/può arrendere: ho chiamato lassù, nel mio Texas-Veneto, e ho lanciato il grido d’allarme, proprio come un bambino che si vede rompere il suo giocattolo preferito e tenta il tutto per tutto per rimetterlo in piedi. Perché per me correre è vivere, pregare, pensare, immaginare, colorare, crescere. Correre è una lunghissima somma di verbi coniugati all’infinito che mi permette di tenere equilibrata la mia anima, acceso il mio pensiero e viva la mia creatività. In tre giorni di ospedale veneto, la mia buona dottoressa Grazia e il sempre presente Beppe Parise sono riusciti a riaprire le vie respiratorie alla mia carrozzeria e a farmi rivedere la sagoma della Madonnina sopra il Duomo di Milano. Quaggiù il buon Fabio – compagno d’allenamenti e firmatario delle mie segrete tabelle di marcia – già aveva schedato tutti e 100 i giorni: in un modo massacrante mai visto prima. Insomma, impossibile sfuggire al richiamo dei passi sul sentiero, dell’aria sul volto, della pioggia sul capo. Dell’emozionante gioia di ritrovare l’anima nel mentre si corre. E andare all’essenziale.
L’avventura inizia lunedì (anche se nel segreto questa settimana un centinaio di chilometri li sto ingabbiando), ma il compromesso è già pesante da pagare. Dovrò sfidare la natura nel mentre lei dorme, mettere in cascina chilometri mentre c’è ancora il buio sulle strade, anticipare il risveglio dei pollini la mattina presto. Mi aspetteranno oltre milleduecento chilometri di corse solitarie nelle strade notturne della Roma Capitale. Questo è lo sport: un centimetro alla volta, un passo dopo l’altro, un giorno in coda all’altro: per avvicinarsi alla grande avventura rosa di Milano 2011.
Su questo blog da lunedì racconterò la marcia d’avvicinamento, in compagnia del mio indomito Peppone che – contrariamente al sottoscritto – è dato in spaventosa ascesa di forma. Sarà un riprendere le fila di vecchi discorsi, di eterne diatribe, di nuovi pensieri. E, forse, sarà anche il modo bello per presentare quel piccolo gioiello che fra poco vedrà la luce: sorto sulla strada che portava a New York 2010, si veste pure lui a festa per accompagnare la nostra avventura verso Milano. Perché lo sport è davvero una splendida forma di educazione.
O – come direbbe simpaticamente uno dei personaggi usciti dalla mia penna – “tutto ha un inizio e una fine: ma il mentre è fantastico”.
Onorevole Peppone, aspetti a darmi per vinto completamente. Già sul lungomare di Ostia il 27 febbraio 2011 – ma meglio ancora alla Maratona di Roma del 20 marzo 2011 – tenterò di calare un asso: se sarà giocato bene, sarà annunciatore di grandi prestazioni. Perché, nonostante tutto, la sconfitta è l’arma segreta dei vincitori.
In un piccolo paese di montagna viveva un bambino che condivideva la camera con il suo fratello più grande. Lui amava la vita sedentaria, il fratello maggiore quella all’aria aperta. Il sole la mattina non li vedeva mai uniti: quando s’alzava nel cielo, il più piccolo lo beccava a letto, il più grande lo incrociava già sulla strada. Eppure la mamma e il papà erano gli stessi. Gli stessi che di tutto parlavano fuorché di sport a casa loro. La loro casa divenne ben presto l’accampamento di due fazioni opposte: da una parte Asics, Mizuno, occhiali e completi da corsa. Dall’altra Kinder Bueno, Kit-Kat, Pan di Stelle, Gocciole e Ritter Sport. Uno ingrassava a dismisura, l’altro correva per estinguere chissà quale condanna inflittagli. Uno russava, l’altro spingeva la sveglia a suonare. Un giorno il più piccolo – dopo anni in cui mai vide scritto “Hai vinto” sull’interno del Kinder Bueno – salì sulla bilancia e la sfondò definitivamente. “Vergognati, mi hai fatto male” – le urlò stizzita infrangendo il silenzio del bagno. Lui tacque, ma l’occhio fece in tempo a vedere dove s’era fermata la lancetta.
“Eh no, stavolta è troppo anche per me” – disse tra sé. Solo Briciola, il gatto della casa, registrò quell’affermazione che valse come decreto di espulsione immediata per i chili di troppo.
Era notte fonda. Si mise le scarpe addosso e per una volta anticipò il risveglio del fratello. Prese una borsa, ficcò dentro tutta la bottega che teneva in camera sotto il cuscino e l’abbandonò nel cassonetto delle immondizie. Poi si guardò la pancia: era grandissima, anzi gigantesca. Dall’altra parte della strada il fratello maggiore iniziava il riscaldamento come tutte le mattine.
Il ciccione lo guardò. E gli sparò una sfida: “Ci vediamo a Milano in aprile”. L’altro gli fece il gesto della pistola sulla tempia mentre lui, stavolta convinto, s’allacciò le scarpe e iniziò a correre.
Questa è la storia di mio fratello Sandro. Centoventotto chili di carne ben posizionata (“frutto di una costanza micidiale”, si giustificava fino a qualche mese fa) e una potentissima allergia al fenomeno sportivo, anche solo letterario. Un genio spaventoso d’intelligenza che alle superiori rischiò d’essere rimandato in Educazione Fisica: si salvò per un compito scritto, fatto apposta per lui, dove prese anche la lode. Se a me appassiona il gesto atletico come “fenomenologia del desiderio” a lui appassiona(va) il toast con i carciofini come “fenomenologia dell’appetito”. A ottobre l’ho guardato di sfuggita: mamma, quanto grasso. A Natale una mattina mi sveglio, un freddo glaciale, e non lo trovo in casa: mi dicono che è “andato a fare sport”. Stamattina in montagna nevicava, lui correva. Freddo, vento, nebbia, calura, fame, sete, sudore, fatica: che importa adesso? In questi giorni – dopo quasi 40 chili di carne lasciati sulla strada – ha messo in piedi una staffetta per la Maratona di Milano e si sta preparando, nel mezzo degli ultimi esami universitari e della tesi finale, per i suoi primi 10.000 metri agonistici. Io m’ero arreso: lui è partito.
A volte lo sport è l’occasione per mostrarsi capaci di reagire alla pigrizia dei tempi.
Camillo Sacerdote