il_lupo_e_lagnello“Come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3). Muteranno i tempi, avanzeranno nuove esigenze, s’affineranno le armi dell’evangelizzazione ma la metafora dell’agnello e del lupo rimarrà scolpita ad imperitura memoria per accertare l’esigenza del cristianesimo. Appena il tempo d’abbandonare le chiese vestite di natali e intontite di buoni propositi che la storia ricorda al cristiano la dura legge della persecuzione: è ancora oggi il colore rosso del sangue quello che attesta la fedeltà massima all’imperativo evangelico. Ne hanno fatto le spese i primi martiri come gli ultimi, ammazzati all’inizio del nuovo anno ad Alessandria d’Egitto. Si grida alla persecuzione, s’invoca una solidarietà planetaria, si cerca d’appellarsi ad un vittimismo che i martiri ben lungi vorrebbero vedersi riversare sul loro conto. Perchè – ieri come oggi – è quella metafora a dettare il ritmo del messaggio cristiano: “come agnelli in mezzo ai lupi”. L’agnello sa di valere la sola forza della sua mansueta debolezza: il lupo s’aggrappa alla leggendaria astuzia e alla sua proverbiale potenza. Ma qui non è la fauna ad avere la meglio, bensì la forza che quella metafora esca dalla bocca dell’Uomo che tentò sopra ogni aspettativa di riformare l’uomo nella sua essenza.
Se il lupo/persecutore abbozza la sua guerra, l’agnello/perseguitato sa già qual’è l’unica mossa da giocarsi. Qualora tentasse la vendetta non farebbe altro che accrescere l’imbarbarimento della specie: non fanno così anche i pagani? Gli rimarrebbe pur sempre la via della fuga: ma chi conosce l’alfabeto dell’uomo sa che se un avversario si dà alla fuga non fa altro che accrescere il coraggio del nemico. Fino ad eccitarlo e trasformare la sua debolezza in occasione di un più feroce agguato. Senza la vendetta e la fuga, rimane solo la strada della guancia da porgere per disarmare la voglia omicida che s’inabissa nell’uomo. Chi porge la guancia fino a farsi ammazzare per Cristo accende qualcosa di stupefacente, d’inedito al grado massimo, d’inaspettato. E’ dimostrarsi uomini al di sopra delle aspettative, capaci di una forza irrazionale che mette sull’attenti la bestia stessa. Tutto ciò suona come follia agli occhi della mentalità umana: è qualcosa che repelle al grado massimo, qualcosa d’incomprensibile, per qualcuno d’eccitante anticonformismo. Certamente è quello che dice: e il bambino divenuto Messia non ha mai detto che seguirlo sia una strada facile. Chi s’addentra nel suo alfabeto intuisce da subito che l’insulto dei cattivi è l’attestazione implicita di una bontà manifesta. Come nelle Scritture s’apprende a menadito che la gelosia è quasi sempre un amore rovesciato. Forse è per questo che, disturbati sotto le feste da spruzzi di sangue martire, un principio di pianto inizia a nascere nel fondo delle nostre gole.
Lo grida a squarciagola il Papa, voce ultima e solitaria di un cristianesimo audace e coerente. Gli fanno eco i non cristiani quando parlano “dell’odio planetario, dell’ondata omicida di cui i cristiani sono vittime”. Ma sono pochi dentro la Chiesa coloro che l’ascoltano. Meglio le scorte riservate ai cardinali, gli ossequi per discutibili prese di posizione ecumeniche, la gloria degli uomini allo splendore fragile del Regno di Lassù. Famiglia Cristiana è libera d’attribuire l’oscar ecclesiale di “italiano dell’anno” al cardinale di Milano per la sua vicinanza al popolo di Allah. Forse il popolo degli agnelli avrebbe sostenuto la causa di Mons. Luigi Padovese, ammazzato nella Turchia già segnata dal sangue dei martiri: voce scomoda, amputata e senza scorta. Ma gli agnelli non s’arrabbiano, forti della loro mansuetudine: loro lo sanno che quaggiù la storia la scrivono i vincitori. E attendono il verdetto finale della vera storia di Lassù.

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