Sono tra gli Angelus più belli dell’intero pontificato fin qui vissuto assieme al suo popolo: gli Angelus della malattia, quelli spediti al popolo cristiano dalla stanza al decimo piano del Policlinico Gemelli, una sorta di filo rosso di parole e speranza attraverso il quale Pietro mantiene per mano il popolo. Assomigliano, questi Angelus domenicali di Papa Francesco, alle lettere che nonna teneva nel suo armadio, rigorosamente nascoste nella scatola di latta: erano le lettere che il nonno, quand’erano fidanzati, le spediva dalla linea del fronte dove stava per difendere la patria. Lettere sintetiche, quasi scheletriche, di urgenza: «Ti scrivo mentre faccio da sentinella: le stelle mi parlano di te – lessi in una che nonna mi fece leggere -. Qui si rischia la pelle ma finora tutto bene: aspettami che quando torno noi ci sposiamo. Scrivimi come stai». Un modo semplice, l’unico che i miei nonni avevano per comunicare tra di loro nel tempo della lontananza forzata. La sofferenza, per certi versi, è una guerra: resistere ai contraccolpi della malattia è fare da sentinella ad un vita ch’è in fase di pena. È condividere la fatica senza tacerne la fiducia: «Condivido con voi questi pensieri mentre sto affrontando un periodo di prova – scrive il Papa nell’Angelus dall’ospedale -, e mi unisco a tanti fretalli e sorelle malati». Anche il Papa è al fronte, ma invece che dare consigli e conforto ad un dolore che non prova, sceglie di condividere il dolore che prova. Della serie: “Se la sofferenza vi rende cattivi, secondo me la state sprecando”.
Colpisce la stringatezza di questi messaggi, inversamente proporzionale alla densità dei contenuti: «Quanta attenzione amorevole rischiara le stanze, i corridoi, gli ambulatori, posti dove si svolgono i servizi più umili» continua Papa Francesco. Non teme di narrare la debolezza del fisico, l’esperienza del limite, il suo cercare un significato dentro la stagione del ricovero. Non si vergogna della necessità di farsi aiutare, di dipendere, d’essere nelle mani di altri: abbiamo tutti bisogno delle mani, della braccia di qualcuno per stare in piedi. Anche Cristo, di qua a pochi giorni, s’appoggerà sulle spalle di Simone di Cirene, si calerà tra le braccia di Giuseppe d’Arimatea, verrà raccolto da Nicodemo. Resta il fatto che anche nella sofferenza, soprattutto nella sofferenza – sembra dire il Papa – si fanno incontri sintomatici, scoprendo che la culla dello straordinario è l’ordinario, anche quando diventa il luogo dell’incomprensibile e dell’incomprensione. Nella stagione della sofferenza, il mondo si divide: c’è chi continua a porre domande, cibandosi di panzane, e chi si mette in ascolto del mistero nascosto in essa. La foto del Papa mentre prega, l’unica finora uscita dalla clausura monastica della sua degenza, è l’immagine di un uomo che non disquisisce sul Mistero di Dio ma lo frequenta, lo tocca con mano nell’Eucaristia, per uscirne modificato e riconoscente: «Vi ringrazio tutti per le vostre preghiere, e ringrazio coloro che mi assistono con tanta dedizione». Saluta i bambini, come il nonno con la nonna.
La manutenzione della sofferenza, soprattutto per il credente, rimane un lavoro eroico, per nulla un’attrazione turistica: «A un cuore in pezzi / nessuno si avvicini / senza l’alto privilegio / di aver sofferto altrettanto» (E. Dickinson). Non è di discorsi teologicamente ferrati che ha bisogno chi sta soffrendo: nemmeno di spiegazioni arzigogolate sul “perchè proprio a me” o sul “perchè Dio permette la sofferenza”. Chi soffre, mentre soffre, cerca disperatamente qualcuno che gli tenga stretta la mano e, in silenzio, attraversi assieme a lui il paese del dolore. Per poi, magari, arrestarsi all’improvviso e dirgli: “Fermati: qui c’è Dio al lavoro”. Le “lettere dal fronte” di Papa Francesco, di domenica in domenica, son questo e molto altro: il promemoria che bestemmiare a priori la sofferenza è rischiare di sprecare un’opportunità, spesso la migliore tra l’altro. E che gli insulti, al tempo della sofferenza, sono l’ultima risorsa rimasta ai poveri di spirito: basta una foto, scattata davanti al tabernacolo, perchè la loro eco strida come un’unghia sul vetro.
(da Il Sussidiario, 17 marzo 2025)