Il Papa che non t’aspetti. Salito al soglio di Pietro con l’immagine di un freddo inquisitore teologico e messo nella sua saccoccia di Papa oramai un lustro e più di pontificato, in sei ore di colloquio con il giornalista bavarese Peter Seewald Benedetto XVI apre le porte della sua casa e della sua Chiesa. Perché la convinzione – fin dai primi tempi del suo insegnamento – è sempre stata quella che la fede deve essere spiegata, che alla speranza va data ragione (1 Pt 3,15) e che la Chiesa non deve nascondersi. Eppure tra la celebre auto-affermazione d’inizio pontificato – “sono un umile servitore nella vigna del Signore” – e il “siamo tutti peccatori” di questo libro ci abita la terribile esperienza dei misfatti compiuti dalla Chiesa nel campo della sessualità e dell’infanzia. Il Papa non si sottrae al suo compito di annunciare la Verità. Lungi mille miglia dal gridare al complotto giornalistico o di ritorcere contro gli accusatori le accuse – l’unico complotto da lui invocato è quello del Maligno sempre all’attacco – è cosciente che quei resoconti avrebbero potuto evitarsi solo se nella Chiesa non ci fosse stato il male. Ma siccome il male era anche dentro di lei, i media hanno potuto ritorcerglielo contro. Per ricordarle il prezzo della Verità da Lei proclamata.
E’ la speranza, questa virtù tanto decantata dal Papa teologo, a colorare il suo riflettere sulla Chiesa. Oggi il Papa lo sa che il Cristianesimo s’avvicina più a quello delle origini (il piccolo gregge) che al cristianesimo trionfale dell’epoca di Costantino. E proprio per questo la sua immagine di Chiesa rassomiglia a all’arca di Noè nella quale all’uomo che cerca riparo è concesso d’entrarci. Anche se sono due i sentimenti contrapposti che albergano di fronte alle contraddizioni di cui la Chiesa è firmataria: il turbamento per la peccaminosità – più evidente forse in questo tempo di scandali – e la commozione nel vedere che Dio, nonostante tutto, continua a lavorare con lo strumento che si è scelto, senza abbandonare il suo vecchio intento di scrivere la storia dell’uomo a quattro mani. Con questa sua sincerità di fondo e conscio del rischio che stava per correre, nella quiete estiva di Castel Gandolfo il Santo Padre ha accettato tutte le domande, andando subito al nocciolo della questione ed evitando artifizi letterali e risposte banali. L’uso del preservativo, l’omosessualità, la questione di Pio XII e degli ebrei, la revoca della scomunica al popolo di Lefebvre, il sacerdozio femminile, il burka e il popolo di Allah. Fino al lato nascosto di una vita privata passata tra preghiera, musica e i film su don Camillo e Peppone.
Un Gesù che s’approssima all’uomo di ogni tempo quello che alimenta il pensare e la predicazione di Papa Benedetto. Un Cristo che, lungi dall’apparire un despota extraterreno, sa di dover fare i conti con la libertà dell’uomo. Cosicché la sua esistenza si manifesta in un incontro che, nonostante la sua ineffabile grandezza, è sempre possibile disconoscere. Perché la fede accade sempre nel terreno della libertà. E viceversa: “molti che sembrano stare dentro, sono fuori; e molti che sembrano stare fuori, sono dentro”. Lapalissiano.
“Siamo peccatori. Ma non dovremmo assumere questo fatto come istanza contro la verità, quando cioè quella morale alta non viene vissuta. Dovremmo cercare di fare tutto il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda”. Con quel tocco di speranza che, nell’attesa di vedere realizzate le cose in cui si crede, è capace di trasformare anche l’oggi dell’uomo. Fino a diventare il principio trasformatore di un’intera comunità.
Solo un mite poteva abbozzare una rivoluzione di così ampie vedute.