Sicomoro – cupigia e generosità

L’ultima domenica dell’Epifania corrisponde anche a quella che precede l’inizio della Quaresima, che, nel rito ambrosiano, per antico privilegio legato al vescovo Ambrogio, inizia qualche giorno più tardi: ci immergiamo subito nel clima adeguato, provando a comprendere cosa significhi, nelle viscere di Dio, la parola misericordia.

Un perdono abbondante

« La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir 18, 12)

Paziente e misericordioso, largo nel perdono. Un’abbondanza, che eccede persino il pensabile. Il prossimo è qualcuno di vicino, in cui ci si imbatte, volenti o nolenti, durante il cammino. Libera la scelta sul prestarvi soccorso, come ogni tanto avviene – come suggerito dalla parabola del buon samaritano[1], in cui il mercante straniero si rivela in grado di individuare il proprio prossimo, quando lo incontra, meglio del sacerdote o del levita. Dio va oltre, perché la sua misericordia è come un manto, che si distende, pietosamente su ogni essere vivente.

Nessuna misericordia, senza giustizia

Misericordia: mai parola più fraintesa. Non si tratta di un perdono a basso costo, di un condono indiscriminato. Di un dono un po’ bislacco, da parte di un pazzo scriteriato. Il Dio che perdona con magnanimità è lo stesso che  “corregge, ammaestra e guida come un pastore il suo gregge”[2]: tutte azioni che evidenziano cura, attenzione ai dettagli, capacità di mettere al centro l’individuo, anche quando in mezzo ad un gruppo numeroso, com’è un gregge. Azioni che sono di correzione, perché è necessario, per crescere in amore ed umanità, comprendere i propri errori, così che il perdono ricevuto possa diventa grazia per un reale cammino di conversione, condizione imprescindibile, affinché la fede di ciascuno sia viva e apportatrice di linfa vitale allo scorrere dei nostri giorni.

Uno, nessuno e centomila

Nel secondo capitolo della seconda lettera ai Corinzi, possiamo trovare una sottolineatura che ci aiuta a comprendere il legame che unisce tutti i cristiani, motivo per il quale qualsiasi peccato è di troppo, nella Chiesa, nonostante non manchino mai. Ogni membro della chiesa, in quanto tale, è legato a doppio filo non solo con Cristo, Suo Capo, ma anche con gli altri membri: per tale motivo, non esiste la possibilità di peccare  in solitaria. Più o meno grande che sia, ogni colpa, oltre alla ricaduta personale, porta sempre con sé una conseguenza sulla collettività, che provoca un ritardo sulla santificazione collettiva ed un ostacolo al cammino di perfezione dei singoli membri. A titolo di esempio, si pensi allo scandalo che ha provocato, nei piccoli, vedere insudiciarsi dei peggiori peccati alcuni membri del clero. Simili nefandezze non dovrebbe neppure esistere; al contempo, seppure siano state compiute da un’esigua minoranza ciò è andato a detrimento dell’intero corpo ecclesiale: infatti, oltre alla sofferenza delle vittime (insieme coi danni provocati alla loro psiche, alla loro anima e alla loro vita di fede), simili episodi hanno minato la fiducia concessa all’istituzione stessa, compromettendo la serenità di tanti altri “colleghi” innocenti. Non puoi passare da una pista da motocross, illudendo di uscirne immacolato: neppure se non vi sono attualmente in corso gare.

“Far prevalere la carità”

La raccomandazione con cui si conclude il brano liturgico richiama al prevale della carità, eventualmente sulla giustizia. Non si è mai pensato né parlato di non applicare la giustizia. Far prevalere la carità richiama la necessità che non sia dimenticata la grandezza dell’uomo, che sovrasta anche la colpa più grande. L’uomo, pur colpevole, rimane sempre uomo. Rimane figlio di Dio, creatura dell’Altissimo e  trova, proprio in questa connotazione, la sua sconfinata dignità, che nessun peccato potrà mai sovrastare. In virtù di ciò, è possibile concedere sempre una possibilità di riscatto, nella speranza che quella scintilla divina, che lo rende “immagine e somiglianza di Dio”[3] possa tornare a splendere…

Un perdono in agguato

È in relazione al Dio dei padri, in grado di perdonare “settanta volte sette”[4] che ciascun cristiano è chiamato a risvegliare e rinsaldare, nella preghiera e tramite l’accesso alla grazia dei sacramenti, quell’arte di sapore divino che è quella del perdono. Un’arte capace di vedere il riflesso di Dio in ogni uomo, anche quando è annebbiato dalla colpa del peccato e della cupidigia.

Zaccheo, il piccolo grande peccatore

Immancabile, quando si parla di misericordia e perdono, previeniente e loganime, non può che venire alla mente quell’immagine evangelica. Un piccoletto antipatico a tutti, anche solo per il lavoro ingrato che gli toccava oppure amava fare (non ci è dato saperlo, da dettato evangelico!). Quel che sappiamo è che era costume diffuso aggiungere la beffa al danno, poiché molti, tra gli esattori delle tasse, risultano essere avvezzi al furto indebito di parte delle loro raccolte in favore dell’impero.

Un albero per amico

Una celebrità in visita a Gerico, cittadina, fino allora, famosa per altre epiche imprese[5]: può mai il buon Zaccheo farsi sfuggire una simile occasione. Senz’altro sì, se non si fosse ingegnato per sopperire alla  propria personale mancanza di altezza. Perché il gabelliere, poco stimato dalla maggioranza dei correligionari, nonostante la ricchezza che si era guadagnato, rimaneva penalizzato, in situazioni, come quella descritta nel Vangelo, di folla che si accalca. Basta uno sguardo: la salvezza viene da una pianta, un sicomoro, pare, che si offre come appoggio, per raggiungere un punto di vista più elevato e libero da altre interferenze.

“A casa tua”

Un incrocio di sguardi. Accuratamente ricercato. È Cristo che alza il proprio, per scorgere, tra le fronde, la sagoma di Zaccheo. “Scendi in fretta!”, gli intima. È la fretta dell’amore.  Finalmente ti ho trovato!  Così pare dire. Fino a quel momento eri scomparso alla mia vista, nascosto dietro alla bramosia di denario. Ora, anche se nascosto dalle fronde, può essere visto da Gesù, perché è alla sincera ricerca di Dio.

Un impegno concreto

«Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». (Lc 19, 8)

“Esagerato!”, ci verrebbe da dire. Fino a due minuti fa, stavi al tavolo delle imposte, con l’obiettivo di rubare tutto l’intercettabile, e adesso? Ti trasformi in una ONG? È lo slancio dell’amore. In quello sguardo del Cristo, Zaccheo si sente riconosciuto. Esiste, è vivo. Qualcuno lo guarda, vedendo, semplicemente, la sua essenza, ciò che lui è, non ciò che lui ha ed ha conquistato in modo più o meno lecito, pur di poter vantare uno status elevato, agli occhi degli altri. Di fronte a Cristo e al suo sguardo, si ritrova nudo. Ma, al contempo, emergono, escono allo scoperto, anche i suoi desideri più reconditi. Il denaro, il successo, il benessere economico perdono adesso ogni attrattiva.

“Ciò che era perduto”

Agli occhi di Cristo, mentre perde importanza ciò che nel mondo è fondamentale e consente di avere una dignità oppure di perderla, acquisisce rilievo ciò che conta realmente: l’amore. Il denaro non è  sterco del diavolo, come sostennero diversi pensatori del medioevo o dell’età moderna. È utile, talvolta indispensabile. Il denaro consente di comprare medicine, predisporre operazioni costose, assicurarsi scorte alimentari per i bisognosi. Cosa c’è di male in questo? Il male è non vedere l’altro che soffre, chiusi nell’egoismo di chi brama il possesso, delle poche o tante cose che ha. È lì che è necessario pregare che agisca la grazia di Dio: quando lo sguardo è limpido e la mano distaccata dal possesso, ogni volta che tocca il denaro, è sempre utilizzandolo come uno strumento in vista di un fine buono e, proprio per tale motivo diventa uno strumento buono e capace di arricchire chi lo utilizzi.


VANGELO Lc 19, 1-10

✠ Lettura del Vangelo secondo Luca
In quel tempo. Il Signore Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».


Rif. Ultima domenica dopo l’Epifania (“del perdono”), anno C

Fonte immagine: Wikimedia


[1] Vd. Lc 10, 30-37
[2] Vd. Sir 18, 13
[3] Vd. Gen 2, 26
[4] Vd. Mt 18, 22
[5] Vd. Giosuè 6

2 risposte

  1. Molti si stupiscono a vedere alzarsi dal suo banco delle imposte Matteo per seguire Gesù. Vi ricordo che il motto di Papa Francesco riguarda questo passo di Gesù.
    Ma se confrontiamo gli altri passi riportati nei vangeli si comprende che Matteo è lo stesso Zaccheo e il pubblicano che andava a pregare di nascosto nel tempio, riconoscendosi peccatore per esigenza vitale, essendo piccolo e non buono per altri lavori.
    Buon’AUR’…ORA per l’incontro del Risorto.

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