attesaA volte basta una speranza per accendere dei passi. Nella giovinezza si spera nel grande amore. E sperando lo si inizia ad attendere. Nella maturità si spera la grande occasione professionale, la scelta migliore nei sentimenti, il bersaglio che procuri la felicità. E sperando inizia l’attesa. Ma ogni piccola speranza, una volta raggiunta, mostra d’essere imparziale e insoddisfacente. Perchè ogni speranza è un frammento della grande Speranza. Quella che per lasciarsi conquistare chiede un tempo d’attesa non indifferente. Il verbo “attendere” è un verbo familiare, uno di quegli amici grammaticali con i quali ti vanti d’essere da sempre in perfetta confidenza e comunione d’intenti. Attendere è il verbo del bambino quando sogna il giocattolo, dello studente ormai prossimo alla pagella, della mamma che sente fiorire dentro il grembo la vita. Del nonno che vede vacillare le sue forze e del soldato che sta ormai finendo il suo conto alla rovescia. Sono le attese quotidiane, le piccole trepidazioni domestiche che rendono tutta la nostra vita una lunga ed estenuante attesa. Ma esaurita ogni attesa, ne riparte subito un’altra. Cosicchè tra le mani non resta nemmeno la gioia d’averla conquistata.
Per Lui, il Dio fattosi Bambino, hanno speso e messo in moto l’attesa più lunga che la storia racconti. Quella che nessun giocattolo o grande amore riesce ancora a pareggiare. Un’attesa della quale parlavano millenni orsono le gole riarse dei patriarchi, i vaticini dei profeti biblici, che era scritta nelle budella affamate dei poveri d’Israele e nascosta nelle braci dei pastori di Galilea. O forse semplicemente custodita nei racconti che i padri tramandano ai figli, di generazione in generazione. Perchè “attendere” è un verbo familiare sia a Dio che all’uomo, un incrocio nel quale ogni volta tentare di re-immaginare un modo nuovo di vivere, sognare e sperare. Un’attesa che una volta conquistata lascia come traccia una Bellezza perenne. Fino a dividere la storia dell’umanità in due grossi capitoli: prima di Lui e dopo di Lui. E costringere l’uomo di fede a “mostrare che l’infinito di cui l’uomo ha bisogno può venire soltanto da Dio” (Benedetto XVI, Luce del mondo).
Per questo oggi riparte l’Avvento, il nome che la Chiesa ha dato a questo suo periodo di restauro per festeggiare la Venuta del suo Dio. Per accogliere l’Attesa che si è fatta storia: quella per la quale ancor oggi la gente muore, si fa impiccare, si lascia ammazzare. O molto più semplicemente si lascia irridere. Nulla importa al popolo credente, quel popolo che nel cuore tiene accesa la certezza che questa è l’unica attesa che, una volta avveratasi, non lascerà traccia di delusione. Tutte le altre attese sono la “sala prove” dentro la quale allenarci a reggere il peso e il fascino di questa grande attesa. L’uomo ha bisogno delle piccole attese, perchè l’uomo è un bambino capriccioso che necessita di piccole dosi quotidiane per imparare a diventare grande. Ma tutte queste attese chiedono una grande Attesa che regali loro la certezza d’essere avvenenti profetesse di un qualcosa che poi non tramonterà.
Il poeta greco Ghiannis Ristos ha scritto che le parole sono come delle “vecchie prostitute che tutti usano, spesso male”. E al poeta tocca restituire loro la verginità perduta. Forse è proprio questo anche il senso dell’Avvento che inizia oggi: restituire alla parola “attesa” la sua verginità perduta. Quel tocco di meraviglia che fa risuonare dentro di lei l’eco di un Cielo mai così vicino come in queste settimane. Perchè un Bambino, annunciato dall’attesa, sta per nascere.

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