La ribellione come forma ultima di resistenza alla tirannia. Sono giorni che l’Italia della scuola – una parte in maniera cosciente, una parte in maniera incosciente – sta cercando di fare breccia nelle decisioni finali della riforma scolastica italiana usando questo strumento. Cortei, fischi e striscioni per far sentire la voce dal basso e, magari, interrogare la voce dall’alto. Ma come ogni tradizione sa di dover lottare per difendere ad oltranza i suoi bastioni, così ogni novità sa di dover mettere in conto lotte non meno faticose per tentare di immaginare un nuovo modo di essere e di fare. Forse anche di insegnare. In tal modo tradizione e innovazione difficilmente giungono a firmare un patto di non belligeranza.
Giustificate o meno le motivazioni che portano un popolo (questa volta giovane) a scendere nelle piazze, rimane la barbara verità di osservare l’imbarbarimento della protesta. Certamente nessuna protesta nasce da un animo sereno e ordinato: c’è sempre qualcosa di losco e di manipolato alle spalle che la spinge a mettersi in cammino. Ma nemmeno uno sprovveduto potrebbe pensare che quello delle grida e dei fischi sia la strada maestra per arrivare ad una conciliazione. Chi viaggiava tra le strade di Roma giorni fa – magari preda pure lui di uova lanciate contro Montecitorio – non avrà fatto certo faticato a rivivere lo scenario del Forno delle Grucce di Milano raccontato dal Manzoni nel suo capolavoro letterario. Perché quando la gente è preda dell’isterismo collettivo, nessuna legge potrà far credere loro che stanno sbagliando. Il problema sarà quello di vedere che cosa si otterrà con queste proteste, al di là di una sensibilizzazione sul problema che è sempre e comunque una conquista degna di rispetto.
Dire un no alla tirannia, però, significa anche ribadire la stessa negazione per un certo modo di fomentare la rivolta generale. Che un rappresentante salga con il sigaro in bocca sul tetto di una facoltà – fermandosi sui gradini della scala per farsi fotografare -, che altri tentino di imitarlo per andare a portare solidarietà al popolo che manifesta non penso arrechi quei frutti che potrebbero raccogliersi se, invece di fare questi show, davvero si proponesse un modo nuovo e diverso di immaginare l’Italia. Quella dei giovani, quella delle famiglie, quella degli anziani: quella che ad ogni età sa tributare la giusta considerazione e conoscenza. Quando un popolo, chiamato annualmente alle urne, non trova di meglio che confermare ripetutamente la scelta fatta – anche qualora ne notasse le mancanze – è un segno implicito di condanna a chi non ha saputo proporre di meglio nell’occasione. Per un popolo che scende nella piazza c’è un intero Parlamento ad essere condannato dalle loro urla: chi propone perché magari propone male, chi critica le proposte perché non lo fa in maniera creativa. Ecco perché, nonostante tutte le buone intenzioni, assistiamo a ribellioni che sono come strade senza via d’uscita. Chi ce ne rimette è l’idea di scuola che tutti avremmo in testa da tempo: una scuola che addestrando al sapere sappia anche condurre lo studente ad una capacità di lettura critica della realtà.
Mentre scrivo un bambino – dodici anni, approssimo per eccesso – urla al ministro di andare a farsi fottere. E sventola una bandiera con falce e martello. Sembra un ultras in piena trasferta che ricorda all’avversario il mestiere della madre. Dal tetto l’opposizione applaude. Ecco perché certe manifestazioni nascono già morte.
E il corteo altro non è che un lungo lamento funebre.