prescrizioneE’ tutta una questione di centimetri, di sillabe, di piccole sfumature. Eppure dietro se ne sta nascosto il vero segreto di ogni regime dittatoriale. La storia insegna che il potere abita sempre e solo nelle mani di coloro che tengono in mano il controllo della “parola”. Chi ha pagato sulla sua pelle il dramma dei campi di concentramento e se ne è uscito vivo, racconta che l’effetto peggiore là dentro non erano i volantini, i manifesti o qualsiasi altra cosa riconoscibile ad occhio nudo. L’effetto peggiore era la manipolazione della parola: frasi ripetute milioni di volte, parole svuotate dei loro significati originali, locuzioni fatte entrare inconsciamente nella massa e da essa ricevute in maniera meccanica. Nessuno se ne accorgeva, come nessuno s’accorgerebbe di ingerire una dose di arsenico. L’effetto, però, sarà tossico e nefasto quando si manifesterà alla coscienza dei singoli. Ieri c’era la dittatura: manifesta, esplicita, gridata.
Oggi la stessa dittatura s’è perfezionata a dismisura: nessuno sembra accorgersi – “L’Italia è una Repubblica democratica” (art. 1 della Costituzione) – ma lentamente le dosi di arsenico stanno saccheggiando il vocabolario, impoverendo le parole e anestetizzando la mente. Basta aprire un qualsiasi giornale e ci vengono sbattute in faccia espressioni che da anni sono ripetute tali e quali. “Il presidente eletto dal popolo”, “il governo del fare”, “la discesa in campo” (frasi che giungono da destra); “il premier deve tornare a casa” (ma in quale casa? Ne possiede ventisette!), “il fallimento del governo”, “il berlusconismo imperante” (frasi che giungono da sinistra). Espressioni che oramai lasciamo entrare ed uscire dalla nostra mente come un idiota lascerebbe entrare e uscire un ladro da casa sua, permettendogli di agire a suo piacimento fino a svaligiare tutto. Forse non tutti hanno l’esatta percezione del dramma che sta impoverendo l’Italia: non è un problema di denatalità, di crisi economica, di crisi del governo. Il vero problema è che le parole non parlano più, non riescono più a far passare un messaggio, manipolano e violentano la realtà a loro uso e consumo. Fino a creare nell’immaginario della gente la consapevolezza che l’Italia oggi stia vivendo uno stato di benessere e di prosperità come non mai nella sua millenaria storia. Chi non è ignorante, invece, si rende conto benissimo d’essere sul ciglio della disperazione più completa. L’aggravante è che tutto finisce sempre a tarallucci e vino, come nella miglior tradizione ligure.
Essere costruttori di democrazia significa prima di tutto accettare di parlare un linguaggio che sia alla portata di tutti, evitando quel parlare “in codice” grazie al quale passano le forme più becere di prostituzione e manipolazione mentale della gente comune, oramai abituata ad una capacità di sopportazione inimmaginabile, fino a confondere l’arsenico con l’acqua del rubinetto. L’auspicio è che almeno qualcuno tra il popolo giovane tenti la ribellione. Fosse necessaria pure la sovversione dell’istituzione, qualunque nome essa tenga. Vorrebbe dire che ha capito che la lingua italiana è troppo bella per lasciarla in balìa degli imbecilli. La loro ribellione intellettuale diventerebbe anche il segno più bello che una certa scuola ha centrato il suo vero obiettivo: mettere nelle mani dei giovani la possibilità di usare con competenza l’arma della parola.
Che orgoglio sarebbe per una scuola la scoperta di tale risultato!
In Birmania per vent’anni una donna di nome San Suu Kyi ha pagato con il carcere l’uso della parola. In Italia da decenni abbiamo svenduto le parole in cambio di un bicchiere di vino rosso e una barzelletta. Ignorando che le parole sono il vero strumento per cambiare il mondo. Loro l’hanno capito, gli altri no. Ma la colpa non è di chi acquista un pezzo vecchio; la colpa sta nell’ignoranza di chi non s’era accorto che quel pezzo valeva un patrimonio.

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