Tanti, dei presenti, erano tra quelli segnalati perchè donavano il loro 5 per mille. Qualcuno, addirittura, era solito devolvere l’8 per mille. Qualcun altro, c’è da crederci, aveva omaggiato il suo parroco di una lauta somma per comprare i banchi della chiesa: “Chiedo solo, reverendo, che poi ci sia un cartellino con il mio nome”. Qualcuno, addirittura, s’accollò le spese per il restauro della facciata della chiesa. Altri si fecero avanti per finanziare il nuovo oratorio e poi dedicarlo alla memoria della madre defunta. Qualcuno, poi, chiese al parroco una sorta di ricevuta per poterla poi detrarre, la somma versata, l’anno successivo nella sua dichiarazione dei redditi. Tutta gente, insomma, che ha fatto del bene: è la solita regola del “piuttosto che niente meglio piuttosto”. Fatto sta che, nell’ufficio delle entrate del Cristo – laddove c’è la fotografia, in tempo reale, dell’uomo e di tutto ciò ch’è in suo potere – tutta questa beneficenza figurava come lo “zero, virgola” di un patrimonio molto più vasto, imponente. Tanto che, tolta la somma versata, nulla mutava del loro contesto di vita, del loro tenore di vita. Anzi: addirittura più di qualcuno ne guadagnava in stima, riconoscenza, autorità. Per dirla nel modo di Cristo: «Tanti ricchi gettavano molte monete (…) Tutti infatti hanno gettato del loro superfluo». Mica è tonto, Cristo: tra il dare e l’avere di costoro, non nota alcuna conseguenza in fatto di povertà. Dunque anche di autenticità del gesto.

Lei, invece, «nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Lei è una poveracrista, addirittura «vedova», dunque a rischio non solo di sopravvivenza ma anche di tutela legale da parte dell’uomo che fu suo marito. Molestare l’orfano o la vedova, nel Vangelo, è mettere mano ai fili dell’altissima tensione: “Guai a chi li tocca, pensateci due volte” è il monito che gli evangelisti ripetono, come fosse un mantra, tra le righe dei loro Vangeli. Quando, al tempio, fa capolino lei, il mondo della beneficenza va in crisi. Cristo, ch’è tutto preso nel suo insegnamento – «Guardatevi dagli scribi (…) Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» – si sconcentra perchè vuole portare la concentrazione della folla esattamente su lei. Estrae dalla tasca del suo sguardo una lente d’ingrandimento e zooma sulle mani di questa donna vedova: «Venuta una vedova povera vi gettò due monetine che fanno un soldo». Qualche benefattore, fa notare il Cristo sotto traccia, si veste da povero, prova a mettersi nei panni del povero (il che è, comunque, lodevole) cerca di aiutare un povero: “Ma non è povero”, specifica. Il che, badate, non è una sottigliezza di poco conto: la povertà non è per nulla poetica come cercano di presentarcela taluni, anche tra le navate delle chiese. Lo può diventare quand’è una scelta di vita, un’opzione voluta, una ipotesi di felicità. Quando è una costrizione, invece, non è possibile dire che la povertà sia bella: è la più subdola delle disperazioni, una sorta di anticamera alla morte. Dell’anima, anticamera di quella del corpo.

Eccola, dunque, la poveraccia che diventa, nel fiuto di un gesto, signora. Regina indiscussa dello sguardo di Cristo. Con annessa motivazione della sua promozione in diretta: «Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri (…) Lei, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva per vivere». Si è giocata il suo “tutto” del patrimonio, non solo lo “zero, virgola” del patrimonio liquido e immobiliare che aveva. Ragiona come piace al Cristo: “Non si è mai sentito che chi faccia del bene vada a finire male” avrà pensato nel suo modo popolare di ragionare. Nei Vangeli somiglia a Veronica: nasce e muore in questo suo gesto. Entra in scena, getta la sua monetina, esce dalla scena: la cosa che non aveva calcolato è che, nella breve sincerità di questo gesto, fosse lo sguardo di Cristo a tenerla per sempre nella scena dei Vangeli. Una moneta da due soldi, contro il bonifico ch’è valso il restauro della facciata del tempio: se tu dai un patrimonio ma non dai il cuore, per Cristo avrai dato lo “zero, virgola”.

(da Il Sussidiario, 9 novembre 2024)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Vangelo di Marco 12,38-44).

In tutte le librerie e negli store on-line il nuovo libro di Marco Pozza dal titolo “Chi ultimo arriva meglio alloggia (Rizzoli, 2024) sul commento ai vangeli domenicali dell’Anno C

«Beati gli ultimi perché saranno i primi. A sorridere della spudoratezza di Dio». È la vecchia storia della maglia nera che c’è stata al Giro d’Italia dal 1946 al 1951: a indossarla, e dunque a vincerla, era colui che si classificava ultimo. Era, chiaramente, l’esatto opposto della maglia rosa, quella indossata dal primo arrivato. Valeva tanto quanto. Uno che se ne intendeva era Luigi Malabrocca, famoso proprio per aver indossato una maglia così epica e strana. Non è mai entusiasmante, nel mondo degli uomini, arrivare ultimi. Quando, però, incontri un ultimo diventato primo, è l’attimo nel quale ti si svela l’evidenza di quell’apparente assurdità architettata dal Cristo: «Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,44). Il Cristo che, quando voleva deteriorare alla base le verità dei presunti santi, insospettiva con creanza e savoir-faire: «Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi» (10,31). Detto e fatto. Detto e rifatto. Con lo stile dissacrante e profondo che ormai gli è proprio, il parroco del carcere di Padova, vicino da sempre a Papa Francesco, segue il Vangelo di Luca per andare in gita dentro le sue provocanti immagini, in un cammino mai prevedibile come quello di Gesù, per ritornarsene poi nella vita di tutti i giorni con un’evidenza più luminosa. Come se, specchiandosi nelle pagine dei Vangeli, la vita – quella che, sovente, fatichiamo a leggere nei minimi dettagli – si ripresentasse ai suoi occhi in alta definizione. È la magia di parole, quelle evangeliche, che non hanno mai finito di raccontare tutto ciò che sognano di raccontare ai loro innumerevoli lettori» (dalla quarta di copertina).

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