maiali“Questa parola è dura, chi può ascoltarla?” O, forse, chi vorrà ascoltarla?
Perché, mi ci metto io per prima, molte volte, è la volontà che manca, non certo la comprensione o l’ascolto. È per comodità, non per ignoranza, che, spesso, ci adagiamo in un cristianesimo in versione “soft”: certo, rassicurante, ad effetto-placebo, ma ben lontano da quel “fuoco” che Cristo amerebbe trovare già acceso; e, ad essere onesti fino in fondo, credo che ne siamo pure consapevoli, ma preferiamo crogiolarci con un “souvenir” di cristianesimo, che ci ricorda solo (vagamente) cosa sia, senza sconvolgere i nostri piani e la nostra quotidianità, né mettendoci in discussione. Ma, del resto… “niente di nuovo sotto il sole!” (Qohèlet, 1, 8-9): è così, almeno dai tempi di Gesù! Erano, infatti, gli apostoli stessi a far notare: “Questa parola è dura!”, quasi a sottintendere una supplica a renderla più morbida, più digeribile.
Eppure, il discorso eucaristico giovanneo non è né la prima né l’ultima tra le parole “dure”, difficili da comprendere, o, meglio, da accettare, che pronuncia il Nazareno lungo il corso della sua vita pubblica.

Possiamo pensare al Figliol Prodigo (Lc 15, 11-31), che scatena in noi i peggiori sentimenti d’invidia, pervasi da un profondo senso di ingiustizia. Si tratta, forse, di invidia per la bontà divina, come suggerisce Cristo stesso in un’altra parabola, quella dei vignaioli presi a giornata, con la lapidaria interrogazione: “Sei forse invidioso perché io sono buono?” (Mt 20, 15).

Possiamo proseguire con una scena poco nota, ma molto importante nell’economia della Buona Novella: l’Indemoniato di Gerasa (Mc 5, 1-24). Un uomo che, persa ogni dignità, indipendenza, persino – quasi – forma umana, con l’irruzione di Cristo, vede la sua vita trasformarsi in modo radicale: da questo si sprigiona una gratitudine tale che il suo primo istinto è proprio quello di chiedere al suo liberatore di poterlo seguire. E Cristo, qui, ci spiazza, con il suo diniego: l’uomo che, ritrovata la libertà, si offre di seguirlo, si vede recapitare un rifiuto. Accompagnato da una missione speciale e diversa: fare ritorno alla base! Missione non certo secondaria, né meno impegnativa, come si capisce dalla reazione dei compaesani: impauriti dalla fine rovinosa della mandria indemoniata di duemila porci, lo supplicano, sì, ma non di poterlo seguire… al contrario, che sia lui ad andarsene!
La dura legge del mercato non ammette sconti: mentre per gli uomini la serenità e il quieto vivere sono prioritari, per Dio la libertà umana può valere il sacrificio di duemila porci…

Ci sono poi due episodi legati alla preghiera che non possono passare inosservati. Il primo è il famoso brano del pubblicano e del fariseo (Lc 18, 9-14), il secondo è la cacciata dei mercanti dal tempio (Mt 21, 12-13). In quest’ultimo, l’immagine pia e devozionale a cui attingiamo dai nostri ricordi d’infanzia va a scontrarsi violentemente con la realtà che ci mostra il Vangelo. Essere miti non significa tacere di fronte ai soprusi o alle angherie dei potenti, oppure accettare supini lo stato delle cose. Che io sappia, non leggo da nessuna parte, nel Vangelo, che un cristiano debba “farsi mangiare in testa”! E, qui, abbiamo compiuta dimostrazione di cosa significhi amare: molte volte sono richiesti presenza di spirito e forza d’animo, necessari per poter garantire un salutare “scrollone”, in grado di scuoterci dall’intorpidimento.
Nell’incontro “a distanza” tra il fariseo e il pubblicano abbiamo un pubblico peccatore che, con le sue poche parole, sale prepotentemente alla cattedra del rapporto con Dio; pur senza volerlo fare. Troppo spesso, l’arroganza risiede proprio nel confrontarci con gli altri. Ma, pensandoci bene, quest’arroganza cela, in realtà, una grande sfiducia. Perché l’affermazione di “non essere come gli altri” fa sì che il non essere “rapace, ingiusto, adultero” sia un obiettivo ormai raggiunto, un traguardo, quindi, ormai morto: con cui non è più possibile entrare in dialogo. Cristo, invece, sa la nostra unicità e ci spinge, sempre, a puntare in alto, a credere nella bella copia in noi che è possibile far uscire dal guscio del già detto e del già fatto.

Questa metodologia di Cristo è particolarmente esplicita nel suo incontro con una donna samaritana al pozzo di Sicar (Gv 4, 1-42). Con una capacità di empatia che precorre la moderna psicologia ed un orizzonte mentale che anticipa il femminismo, Cristo affronta l’inaudita sfida di parlare di teologia con una donna. E non una donna qualsiasi, una samaritana (appartenente, quindi, a una popolazione ostile ai Giudei per la diversità di fede). E neanche una samaritana qualsiasi: una poco di buono, dalla vita sentimentale turbolenta, dal cuore inquieto; che, forse, preferisce recarsi al pozzo, in quell’orario tanto insolito e contrario al buon senso, proprio per sfuggire a pettegolezzi e umiliazioni. Eppure, è proprio quel cuore ferito che, avvicinato dall’Uomo di Galilea, diviene predicatore e missionario: strumento a servizio del prossimo per favorire, anche per altri, l’incontro con Cristo.
Perché, in fondo, che cos’è la fede se non un incontro? E un incontro significativo, che è portatore di sapore, di gusto. D’altro canto, ci ammonisce Giacomo, nella sua lettera: “la fede, senza le opere, è come morta!” (cfr. Gc 2, 26).

Definiamo spesso Cristo come Roccia sulla quale poggiare la nostra vita, eppure, il più delle volte, lo consideriamo in realtà poco più di un grazioso ornamento con cui abbellire il giardino.
Preferiamo dimenticare che Cristo è definito, dallo stesso San Paolo, scandalo – cioè, pietra d’inciampo,ostacolo, seguendo la sua etimologia greca (cfr. 1Cor 1, 23) –. Perché – siamo onesti – forse, ai suoi tempi, lo era solo per i giudei. Ma lo stile di Cristo resta, in ogni tempo, inconfondibile e “duro”. È tale, quando ci trasformiamo in giudici spietati (degli altri); quando parliamo di pace (ma “se sono stato provocato, perché non dovrei insultare a mia volta?”); quando pretendiamo di insegnare a tutti (ma non siamo disposti ad ascoltare nessuno); quando, a parole, siamo buoni con tutti (poi, però, non sopportiamo nessuno, a partire dai nostri familiari)…
Leggere il Vangelo dovrebbe essere quel pungolo che ci tiene sempre desti, con gli occhi spalancati sul mondo; se l’effetto ottenuto è, invece, quello tranquillizzante di una camomilla, forse non l’abbiamo ancora letto davvero!

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