«Non io, ma Dio»
Questo il motto che utilizzava il beato Carlo Acutis per ricordare e ricordarsi chi dovesse essere il protagonista, affinché il tempo delle sue giornate potesse essere ben indirizzato rispetto al proprio fine. La consapevolezza che non è proprio il primo posto non equivale ad abdicare alle proprie responsabilità, a non vivere una vita da protagonista. Come, in realtà, ci testimonia lo stesso Carlo, cui appartiene questa frase, con la testimonianza della propria giovane ma feconda vita.
Lasciarsi “invadere” da Dio
Non si tratta di avanzare pretese di (falsa) umiltà, recitando la parte contrita del povero peccatore, per poi – magari – approfittare di ogni situazione per opprimere chi ci sta intorno, in nome della fede, convinti che esista un unico modo di sentire e vivere la fede, un’unica visione, un unico punto di vista che possieda granitica solidità. Togliersi dal primo posto, lasciandolo a Dio significa acconsentire alla volontà, anche quando è impegnativa da vivere, anche quando costa un sacrificio – grande o piccolo che sia – da portare a termine. È lasciare che Dio permei la tua vita, con dolcezza, pervadendo ogni attimo, intrufolandosi nel semplice quotidiano, anche quando – talvolta, capita a tutti! – si fa complesso, si fa arduo, diventa un macigno: così accade nel tempo del dolore, nel momento della malattia o della fatica.
L’imprinting dei santi
Se guardiamo alle vite dei santi, ci accorgiamo che, in fondo, è questo il comune denominatore. Sono tutti diversi. A volte, hanno caratteri esuberanti, difficili da contenere ed incanalare nella vita di una comunità. Talvolta, sono caparbi e tenaci, avanzano sulle ali della profezia, scontrandosi in modo più o meno diretto con superiori, colleghi, familiari. Ogni tanto, sono dei veri e propri ribelli, che sembrano passare una vita intera o quasi a sfuggire a Dio, salvo poi.. franargli rovinosamente tra le braccia e intraprendere, con ardore immutato, la via della santità con la stessa tenacia con cui, fino a quel momento pareva l’avessero rifuggita con repulsione. Non mancano, infine, quelli in cui prevale un carattere tendente alla depressione, sono soliti enfatizzare i loro problemi, salvo poi – come il profeta Geremia[1] – risollevarsi al solo arrivo di una focaccia…
Giovanni Battista nel Quarto Vangelo
Nel vangelo di Giovanni, possiamo scorgere tratteggiato uno dei più bei ritratti di Giovanni Battista. Pur essendo presente anche nel Vangelo di Marco[2] – per altro, con una descrizione dettagliata del suo aspetto e delle sue abitudini – in quello di Giovanni acquista spessore, ci si pone davanti imponente, maestoso, quasi tridimensionale nella ricchezza delle caratteristiche che veniamo a conoscere di lui.
Il matrimonio
Lo sposalizio non è un’immagine nuova, nella teologia ebraica, anzi: è tipicamente utilizzata nella profezia, in particolare nel tempo dell’esilio. Tra tutti, forse, in assoluto, è Osea il profeta-cantore dell’alleanza come sposalizio, che Dio propone ad Israele, nonostante le sue continue infedeltà.
L’amico dello sposo
Nonostante non si tratti di una metafora nuova, nel quarto Vangelo è posta sotto i riflettori una figura particolare. Non lo sposo, né la sposa, bensì l’amico dello sposo. Amico dello sposo, così si definisce il Battista. Una definizione che dice uno stile. L’amico dello sposo, nel rito cristiano, ne è spesso il testimone. Colui che, coi due coniugi appone la propria firma sul registro, esponendosi in prima persona sulla bontà dell’unione appena celebrata. Vive ogni momento della festa insieme con gli sposi e, spesso, ha partecipato anche alla sua organizzazione, condividendone oneri e onori. È felice di veder gioire lo sposo. L’amico dello sposo ha una propria gioia. Vede accrescersi quella dello sposo, a causa della sposa, per via della realizzazione di un progetto di vita insieme accarezzato a lungo, che vede piano piano prendere forma.
Saper diminuire
L’amico accetta persino la parte più difficile: diminuire, al crescere dell’altro, una proporzionalità inversa mai facile da accettare, se non quando l’affetto è sincero e profondo. Perché l’epilogo è saper mantenere la distanza, fino a ritornare nell’ombra: perché, concluso il matrimonio, finiti lazzi e sollazzi, al testimone non è più chiesto di essere a capo della goliardia, ma, piuttosto, diventare sostegno fedele e silenzioso allo sposo, perché possa rimanere fedele a quell’amore, anche quando le prime nubi si addensano ed emergono le prove più impegnative da superare.
Senza invidia…
Solo una chimera? Chi lo sa… sicuramente, abbattere l’invidia che si arrocca tra gli interstizi della nostra anima non è lavoro per tutti i giardinieri. Tuttavia, ascoltare queste parole di Gregorio di Nazianzo, mi fa pensare, che, anche solo raramente, qualche volta è possibile che si realizzino:
Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa fra tutte eccitatrice d’invidia; eppure fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l’emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo[3]
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Rif. Vangelo festivo ambrosiano nella I domenica dopo la Decollazione di Giovanni Battista
[1] 1Re 19, 1-8
[2] Mc 1, 1-13
[3] Gregorio Nazianzeno, Discorso 43, PG 36
3 risposte
Gregorio… Stupende parole. Applicazione quotidiana. Poi magari anche ci riesco.. grazie Don Marco , sempre
Profonda riflessione.
E “capita”al ritorno da un pellegrinaggio ad Assisi intenso e intimo.
Un invito a lasciar cadere ogni resistenza e (af)fidarsi dell’ AMICO. Non è semplice ma confidiamo nello Spirito che ci viene in aiuto