Non era preparata la folla a quel tipo di cibo. Non erano preparati nemmeno gli amici: non lo siamo noi, dopo due millenni di storia che stanno lì a decretare la certificazione di qualità di quel cibo. Peggio: lo mangiamo, quel pane, ma non ci rendiamo nemmeno conto di quel che comporta. O di quel che perdiamo mangiandolo e non conoscendone il suo valore: «Il corpo di Cristo (Amen)» è la risposta pronunciando la quale ci mettiamo in pericolo. Nel frattempo, Dio non cambia il suo menù, pur accorgendosi (a malincuore) di vedere come noi lo mangiano senza gustarlo appieno. Al pari di chi, seduto a tavola, divora ma non mangia. Il menù, dicevamo, rimane lo stesso delle nostre famiglie quando eravamo bambini. Rimane composto di due scelte: prendere o lasciare. Detto con le parole di un ebreo marginale vissuto ai margini del suo tempo: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Certi cibi – chi ha la passione per la cucina lo sa – andrebbero mangiati piano per poi essere gustati fortissimo: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9) raccomanda il salmista. È un avviso affisso per la folla che siamo anche noi. Non è vero che la folla, che le masse, hanno cattivo gusto: semplicemente non hanno gusto. Mandano giù il cibo accettando di non sapere che cosa mangiano: il dubbio, s’è lecito dubitare, è che non abbiano, poi, nemmeno il gusto per le cose più importanti. Cristo, agli amici, si sforza di fare una lezione gourmet, da buongustaio, da fine intenditore di cibi: “Fidatevi che se mangiate me, la mia carne, non tornerete più nelle osterie a mangiare le cose liofilizzate”. I cibi liofilizzati di quand’ancora non si immaginava di potersi cibare di Lui: «Non è come quello che mangiarono i vostri padri e morirono».

Il discorso sembra incomprensibile. Verrebbe da dire, per restare in materia, ch’è difficilissimo da digerire: non siamo mai preparati per la sensazione di quel pezzo di pane, l’Ostia, nella nostra bocca. La purezza di quel gusto ci tormenta, sembra quasi troppo, ci fa andare via di testa se solo ci pensassimo un momento prima di incolonnarci di fronte al sacerdote per andare a prendercela. Varrebbe la pena di sapere ciò che si mangia, prima di deglutire: mangiare quell’Ostia è incorporare un territorio, è mangiare Cristo. Mangiarlo senza riconoscerlo: certo ch’è possibile, ma lascerà in colui che l’ha fatto una sensazione immensamente più amara di chi ha divorato una porzione abbondante di ostriche e champagne convinto che fossero trote allevate per la pesca. Certo che hanno messo qualcosa in pancia, signori: ma divorare un capitale senza portarsi a casa il gusto non è, poi, un qualcosa di cui si poter andare fieri nel raccontarlo. Togliete le ostriche, mettete Cristo: non è questo, forse, che succede in troppe eucaristie? Divoriamo Cristo senz’accorgerci che, facendolo a casaccio o per abitudine, non gustiamo Cristo. Non diventiamo Lui e chi, poi, ci incontra per strada non riconosce Lui dentro di noi. “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” è un mantra della buona cucina. Per noi che ci diciamo affezionati seguaci di Cristo, mangiando Cristo dovremmo lasciare trasparire alla gente che siamo Cristo. O abbiamo mangiato Cristo a casaccio.

L’avviso, stavolta, è affisso all’inizio dell’eucaristia, nella colletta: «O Dio, che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi nei nostri cuori la dolcezza del tuo amore, perchè, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi che superano ogni desiderio». Questo è il frutto dell’eucaristia, oppure non è: con l’Ostia in corpo o s’inizia a leggere il mondo e se stessi con gli occhi di Dio, a pensare secondo Dio, oppure si è mangiato quel pane con un’indifferenza dannosa. Il pericolo non verrà dalla vendetta ma dal dispiacere: quello d’avere perduto, di propria sponte, l’occasione di diventare un po’ più Cristo e un po’ meno mondo. Chi mangia Cristo – nell’eucaristia – non fa più le cose di prima. Se le fa, sente d’esserne innamorato di meno: comunque non è poco. Gustare l’Ostia è un lusso: chi non se lo concede, mangia l’Ostia.

(da Il Sussidiario, 17 agosto 2024)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Vangelo di Giovanni 6,51-58).

2 risposte

  1. Grazie don Marco! Le tue profonde riflessioni e considerazioni ci aiutano ad essere più consapevoli della ricchezza e bellezza del dono della fede in Gesù Cristo, Salvatore del mondo. Impariamo “a gurtarLa…o a gustarLo?”
    Buona domenica

  2. Sentire parlare l intelligenza è è un cibarsi di sapienza, cmq stamattina ho pure riso per la frase ” divorarsi un capitale senza portarsi a casa il gusto………” Stupenda ! Ma corrisponde alla verità

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