Nell’alfabeto dell’Eterno seminare è voce del verbo sperare: che il tempo sia clemente, che la semina sia stata puntuale, che il contadino non abbia fatto le bizze. Si semina per poter un giorno raccogliere o, perlomeno, di potersi gustare un frutto lungamente atteso. Il termine “seminario” condivide la stessa radice e la stessa speranza del verbo “seminare”: si semina una speranza, si coltiva un germoglio di vocazione, si lavora sulla sorpresa di Dio. In un tempo in cui tutti vogliono raccogliere, ricordarci che la semina è condizione indispensabile della raccolta forse non è così banale e scontato.
Il seminario in una città è una delle ultime succursali della follia del Signore: non conosce la perfezione (come tutte le realtà affidate all’uomo), ma dall’Alto avverte la responsabilità morale e umana di formare coloro che domani saranno pastori di un gregge che, se fosse d’armenti e di greggi, sarebbe molto più semplice condurre. Ma siccome è un gregge d’anime e di ferite, allora il mandato ad essere pastori chiede competenza, spirito d’inventiva e santità di vita. Nel seminario non abita la santità, altrimenti il mondo a quest’ora sarebbe già stato convertito: ma forse ci abita il desiderio di contemplarla e di confrontarsi con essa. Altrimenti non si spiegherebbe come mai nel terzo millennio un gruppo di giovani e uomini abitino ancora dentro quelle mura e si scervellino per declinare il sogno di Dio sulle loro anime e sui loro corpi giovani. Mura che sono un po’ come la palestra di periferia, dove un allenatore-educatore lotta e insegna a lottare per anni: ma nel momento decisivo gli allenatori sono costretti a starsene ai margini del campo. Eppure sono uomini fondamentali che dipendono dal successo dei loro atleti e normalmente vanno alla ribalta quando le cose vanno male. Eppure si sa che anche là dentro – dove è alto il rischio di diventare mestieranti del sacro perdendone le sfumature umane – ogni educatore avverte di essere fondamentale nella costruzione di un sacerdozio colorato.
Questa domenica è l’intera diocesi a pregare per il suo seminario: che non significa solamente sborsare quattrini per alzare il reddito pro capite che una parrocchia versa nelle casse diocesane (anche se la materia serve per lavorare sulla forma) e nemmeno abbozzare grafici sull’andamento numerico delle presenze che calano, ma sopratutto coltivare quella simpatia necessaria per saper un giorno scorgere, magari dietro ad un viso troppo giovane per i calcoli umani, un condottiero allenatosi per accettare la sfida del mondo. Non basta essere pastori per vincere le sfide dei lupi: qualcuno per salvarsi la pelle domani abbandonerà il gregge alla balìa del destino. Ma qualcun altro sarà disposto anche a giocarsi la pelle pur di vincere la sfida: dopotutto è in tempo di formazione che uno inizia a mettere in conto la possibilità del martirio, cioè della testimonianza più alta.
Che senso abbia oggi un seminario – magari per i più piccoli – lo lasciamo come quesito a chi ha tempo da perdere. Preferiamo pensare che anche questa sia una delle opportunità date all’uomo giovane per scoprire che senso dare alla propria esistenza. Un seminario e i suoi educatori: cioè gente chiamata a lavorare con sentimenti, desideri, emozioni e aneliti giovani. Oggi si prega per loro: per chi là dentro s’allena, per chi là dentro li allena. Ma sarebbe bello anche pregare per chi, entrato principiante e uscito pastore, dopo ha scelto altri pascoli da abitare: anche questi sono stati figli del Seminario. E nessuna famiglia che sia tale dimentica figli con i quali magari non condivide le scelte.
La strada fa paura solo per chi non va fino in fondo ai propri sogni.