Un uomo in cerca di sé
Mosè, il balbuziente. Mosè, figura di Cristo, in quanto esposto[1]. Mosè l’egiziano. Mosè l’ebreo. Mosè il pastore. Mosè, il condottiero. Mosè, alla guida di un popolo, ostinato e ribelle.
Mosè, in cerca della propria identità.
Tanti sono i volti di Mosè con cui entriamo in contatto, nel libro dell’Esodo. Lo vediamo, inizialmente, piccolo cucciolo d’uomo minacciato dalle leggi di Faraone, che profumano drammaticamente d’attualità. Lo vediamo cresciuto presso gli egiziani. Salvato dalle donne, cresciuto dalle donne.
Col tumulto nel cuore, come giano bifronte, non riesce a resistere al sopruso sui propri fratelli, vendica l’uccisione di un ebreo, uccidendo un egiziano.
Questa risposta violenta non è risolutiva, ma neppure fermerà la scelta di Dio come il condottiero che porterà il suo popolo oltre i confini dell’Egitto, a vagare nel deserto per quarant’anni, in cerca della terra promessa.
Il desiderio di Mosè
Tuttavia, al capitolo 33 del libro dell’Esodo, abbiamo modo di prendere contato con un Mosè diverso. Non quello rassegnato alla pervicacia del suo popolo. Non quello furente per il vitello aureo, che attestava il tradimento, tra gli altri, perfino di Aronne, che vi aveva collaborato.
Emerge il desiderio di Mosè. Tramite la preghiera, dolce ed accorata, nei riguardi di Dio (“Mostrami la tua gloria”[2]). La richiesta del volto indica, una volta di più, la ricerca dell’identità. Mosè, in cerca di sé, si trova in Dio. La ricerca di Dio gli rivela qualcosa di sé. Eppure, nonostante la richiesta accorata, rimarrà (parzialmente) a bocca asciutta: “vedrai le mie spalle”[3]. Non il volto, dunque, ma le spalle. Non un nome che si pronunci, ma comunque un nome da poter vedere, onorare, glorificare.
Il desiderio d’ogni uomo
A lungo, quelle “spalle” hanno rappresentato il massimo successo dell’uomo alla ricerca del volto di Dio. Un volto irraggiungibile, inarrivabile, inguardabile. A maggior ragione: intoccabile.
Fino a quel momento. Il momento in cui una fanciulla, a Nazaret, disse il proprio sì. Un sì, libero e atteso con trepidazione dall’universo. Un sì che ha cambiato la storia. Perché, in lei, Dio ha preso carne e si è fatto uomo. “L’Eterno, che sfama i viventi, si nutre da un seno di donna”: questo il grande mistero racchiuso nell’Incarnazione.
Uno e tre: la matematica di Dio
Al contempo, però, il mistero non si è dissolto, ma solo dischiuso alla contemplazione. L’abbassamento (kenosis) di Dio ha consentito l’incontro, ma non ha distrutto la differenza. Il Figlio ci rivela il Padre e ce lo ricorda, nello spirito Santo. Il rigido monoteismo ebraico si dischiude in quella Trinità che fa impazzire la matematica, ma dona a Dio il miracolo della comunità e – forse – a noi comunica una speranza: non è nella solitudine che si trova la perfezione, ma trova spazio proprio nell’incontro tra diversi, che, mantenendo la propria peculiarità, vivono quel rispetto che non è figlio dell’indifferenza e del “quieto vivere” ma dell’amore puro, di chi, disposto a donarsi per l’altro, muore perché l’altro viva. E, quando ciò avviene nella reciprocità, si assiste a quella gara squisitamente incapace di stabilire vinti e vincitori, in cui a vincere è l’amore, nel desiderio infinito di vedere emergere il bene dell’altro.
Nello specchio della Trinità, anche l’uomo può vedere, almeno in riflesso cosa il suo cuore desidera, anche quando non riesce a raggiungerlo. Perché anche se l’uomo muove guerra, ha il desiderio della pace nel cuore, perché, anche il peggiore degli uomini desidera dare cose buoni ai propri figli[4]!
Rif. letture festive ambrosiane, nella domenica della Santissima Trinità, Anno B : Es 33, 18-23. 34-5-7; Rm 8, 1-9b; Gv 15, 24-27
Fonte immagine: pxhere
[1] Cfr. Melitone di Sardi, omelia di Pasqua
[2] Es 33, 18
[3] Es 33, 23
[4] Cfr. Mt 7,7
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