La seconda domenica di Quaresima, nel rito ambrosiano, rimane nella memoria come quella “della samaritana, ricordando la protagonista indiscussa del dialogo avvenuto al pozzo, che, parlando con Cristo dell’acqua viva che solo da lui può provenire, ci rammenta il forte significato sacramentale e, nello specifico, battesimale, che la il rito ambrosiano assegna alla Quaresima.
La gelosia di Dio e gli “idoli”
La prima lettura liturgica ci offre i dieci comandamenti, l’alleanza che Dio offre all’uomo, per vivere in pienezza, secondo la versione che possiamo trovare nel quinto capitolo del Deuteronomio1. I primi tre comandamenti riguardano Dio, mentre i rimanenti regolamentano i rapporti con il prossimo.
«Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso»2: così dice, esacerbando, forse un sentimento “umano, troppo umano”, le proprie esternazione, il dio del popolo d’Israele. Davvero, Dio è geloso, come un uomo? Senz’altro, ci troviamo di fronte ad un antropomorfismo: l’autore del Deuteronomio utilizza parole umane per provare a dire qualcosa di Dio. L’amore di Dio per l’uomo è tale che vuole evitare che questi sprechi la propria vita, rincorrendo idoli vani, in quella che Agostino chiamerà aversio a Deo et conversio ad creaturas3. Forse, con questa immagine, si potrebbero riassumere tutti i peccati personali, perché si tratta, alla fine, di lasciare che il posto che spetta a Dio sia preso da qualcos’altro. E qualunque cosa sia, anche positiva (il lavoro, la famiglia, gli amici, una passione particolare) rimane comunque “deviante”, funge da idolo (anche se non lo consideriamo esplicitamente in questo modo) rispetto a Dio e non è in grado, quindi, di comunicarci quella pienezza che cerchiamo. Quindi, rimarremmo delusi. Al contrario, una volta posto Dio al centro, ogni altro aspetto troverà i posto che gli compete nel grande puzzle che è la nostra vita.
L’anacronismo di un comandamento
«Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato» (Dt 5, 12)
Guardare le statistiche dei frequentanti la Messa domenicale, c’è da prendere paura, mentre ascoltare discorsi e motivazioni con cui ce ne si tiene accuratamente alla larga potrebbe solo peggiorare le cose, facendo suonare sinistro, oltreché anacronistico, il richiamo alla festa e al giorno di riposo. Al contrario di quanto avviene in Esodo, nel Decalogo che fornisce il Deuteronomio, l’accento è posto più sul significato pasquale (liberazione dalla schiavitù in Egitto) che da quello della commemorazione del riposo divino, una volta conclusa la creazione.
Il senso (smarrito) del tempo e della festa
Tuttavia, basta fare un giro per il centro, tra i negozi, per annusare il profumo delle chiacchiere, nonostante siamo ormai a Quaresima iniziata. Qualcuno, a questa osservazione rimpiange i bei tempi antichi; qualcun altro, invece, evidenzia la grande conquista della laicità dello stato. Non intendo mettere in discussione la necessità e la ricchezza della separazione dei poteri e l’allontanamento dalla christianitas, che, a lungo, ha accompagnato il continente europeo. Eppure, non trovare più dolci, non vedere più spettacoli in Quaresima, mangiare i dolci di Natale solo ed esclusivamente a Natale (potrei proseguire con gli esempi)… era istruttivo e rispettoso, inoltre, della nostra costituzione antropologica.
Ogni giorno, alla luce del “sabato”
Riconoscere un tempo sacro da uno profano, una festa gioiosa da una penitenziale era – in ogni caso – l’opportunità di percepire– financo in termini sensoriali – una divergenza palpabile tra un tempo e l’altro. Individuare un “sabato”, equivale a guardare anche ogni altro giorno sotto una luce differente. Trovata la festa, rimane, a contrasto, la ferialità di giorni da abitare e da vivere. Poter mangiare dolci tutti i giorni, trovare sempre un supermercato aperto, avere sempre la possibilità di assistere ad uno spettacolo rischia di non farci assaporare la distinzione di un giorno dal seguente rischia di risucchiarci in un vortice ciclico che ci incalza con il suo non-senso, come accade all’autore del libro del Qoelet.
Al pozzo, per dimenticare l’anfora…
Anche nel Vangelo giovanneo, il tempo è protagonista. Mezzogiorno assolato, in terra di Samaria: quando il sole picchia sulla testa, fino a farla ribollire. Pessima scelta per uscire a prendere acqua. Devi avere un buon motivo per scegliere questa follia d’esporre la tua pelle ai raggi cocenti del sole… e la donna ce l’ha, evidentemente. Dopo cinque mariti, con un ulteriore, attuale, partner, chiunque può immaginare che i commenti e le malelingue avrebbero avuto, subito e a lungo, materiale con cui riempire ore e ore di pettegolezzi. Per un po’, puoi anche fare orecchie da mercante: poi, però, i tuoi nervi richiedono – comunque – pietà e hai bisogno di una tregua, di non doverti, continuamente, difendere da ogni dettaglio che non soddisfi requisiti altrui.
Il pozzo è – da sempre, in medio Oriente – luogo dell’incontro, dello scambio di informazioni, delle contrattazioni commerciali e, conseguentemente, anche se è poco romantico per la nostra mentalità aggiungerlo, anche delle contrattazioni matrimoniali4. Ecco la vera stranezza che rende insolito che Cristo parli da solo, ad un pozzo con una donna: ricorda una scena che è preludio ad un matrimonio. Che all’età di trent’anni anche Gesù si sia deciso ad accasarsi? La donna, con la sua anfora, si è avvicinata. I due hanno parlato. L’acqua, al centro dei loro discorsi. Un’acqua che rimane, perdura. Uno sguardo che la legge nel profondo. Un uomo che la prende sul serio.
Quanto basta perché la donna, arrivata al pozzo per attingere acqua, lasci dietro di sé l’anfora, allontanandosi in fretta, con un interrogativo: “che sia un profeta?”.
Il coraggio della testimonianza
La samaritana trova non solo il coraggio di tornare a cercare una comunità che pareva averla isolata perché la sua condotta non era conforme ai dettami della legge mosaica, ma anche il coraggio di una testimonianza libera e liberante. Perché quell’interrogativo, nella sua “predicazione” suggerisce la delicatezza con cui essa riesce a comunicare un Vangelo che, pure, le risulta ostico, ostile e – talvolta – incomprensibile.
Ci vuole coraggio a “nascondersi” dietro l’annuncio, lasciando che emerga Cristo, sprofondando nel dimenticatoio il proprio ego.
«Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4, 42)
Forse, nelle intenzioni di chi pronuncia questa frase, c’era il tentativo di sminuire, financo ridicolizzare la persona. Paradossalmente, invece, è il complimento più bello che un predicatore possa ricevere. Perché, se lo riceve, attesta di aver assimilato lo “stile di Cristo”, che lasciando liberi e senza nulla imporre, non fa altro che proporre “Venite e vedrete”5.
E, a seguirlo davvero, il rischio di dimenticare anche l’anfora con cui si era usciti per andare ad attingere acqua, diventa enorme…
1 È possibile leggerne un’altra versione in Es 20, 2-17
2 Dt 5,9
3 Cioè: voltare le spalle a Dio, per volgersi verso el creature. AGOSTINO, De civitate Dei , 14, 28
4 Ce lo ricorda Ct 4, 12-15, accennando all’usanza dei pastori di ritrovarsi, verso mezzogiorno, nei pressi dei pozzi e lì rimanervi fino a sera, ora del rientro con il gregge. È in questi versetti che ritroviamo l’espressione, ripresa dal Vangelo di “acqua viva-2Ma è vero anche per l’incontro di Isacco e Rebecca (Gen 24, 15), oppure di Giacobbe con Rachele (Gen 29, 9).
5 Gv 1, 39
Rif. Letture festive ambrosiane, nella II Domenica di Quaresima, Anno B
Fonte immagine: Ottogiorni.it
Vedi anche: F. MANZI, La Parola della festa, Ancora, 2008
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