Forse un giorno anche Famiglia Cristiana s’accorgerà che il problema non è solo quello della politica che ha messo fuori dalla porta di casa il bene comune per costruire attorno ad essa una schiera di “ministri servili”: questa è la faccia della medaglia che riguarda Cesare. C’è anche l’altra faccia da guardare, per una chiara obiettività di coscienza: quella di una Chiesa che, complice uno stile non sempre inappuntabile, sta confondendo troppo spesso – e, purtroppo, avvallata da una certa teologia dell’insabbiamento – il fatto cristiano con il “giocare al cristianesimo”. Dio alla sua chiesa non ha consegnato un gioco con delle istruzioni d’uso e un margine di profitto a lunga gettata: l’Eterno ha messo nelle mani dell’uomo la collaborazione nel costruire la storia della salvezza.
L’inchiesta choc di Panorama sulle notti brave dei preti gay, gli scoop su ricatti e presunte frodi fiscali di natura economica, il tradimento in mondovisione di una certa fetta di ministri a scapito di un gregge che lamenta un’assenza plateale di testimonianza, gli scandali putridi e fetidi di chi gioca con il mondo dei bambini e un mondo disordinato sessualmente che inizia a dettare moda tra le navate delle chiese c’inducono oggi a pregare Dio non solo per la conversione dei pagani, degli ebrei e del popolo di Allah – cosa che c’affanniamo a compiere da millenni ormai in automatico – quanto per la conversione della sua Chiesa, prima di tutto.
I templi vuote e le piazze piene recano alla chiesa il saggio consiglio di smetterla d’appellarsi al suo essere vittima: peccato che questo lo stia urlando solamente il Santo Padre nel mezzo di una steppa che non ascolta più il grido del suo Dio. Non sempre una chiesa si svuota per mancanza di talenti del ministro che l’abita: è piuttosto lo stile che non riesce più ad accendere la credibilità nel popolo che s’affaccia al suo interno. Ma se manca lo stile – tutt’altra cosa dal pagano pavoneggiamento – manca la capacità d’attrazione della Verità che si proclama. Ma se una Verità non attira col suo splendore la gente cerca soluzioni altrove. Magari su quelle piazze affollate di anime assetate di quello che noi ministri dovremmo offrire per mandato divino.
Ad Asiago, nella terra vicentina, qualche giorno fa è esploso un applauso fragoroso e convincente a siglare la conclusione di un incontro con don Andrea Gallo, il prete di strada del porto di Genova. Cosa che succede assai raramente con porporati dalle grosse nomine e fattezze: non abbiamo ancora capito, forse, che la gente preferisce il profumo della polvere al fascino nauseante dell’incenso, le mani odorose d’immondizia ai polsini dorati, le camicie consunte e le tute da lavoro ai colletti d’ortodossa ordinanza. Troppe volte feriti nelle attese e nei desideri, rimane la certezza nascosta nelle righe della Scrittura: quando Dio decide di convertire il mondo, parte sempre dalla periferia. Da quei rioni polverosi e puzzolenti dove la gente lotta per un tozzo di pane e dove il sole è ancora capace di trasformare il fango in un giardino: e dove chi mente paga la dura condanna di non essere più ascoltato. Gli scandali rimarranno, forse aumenteranno, ma la storia parla chiaro: il padre di Pascal gli nascose i libri di matematica, il padre di Petrarca gli bruciò i libri di latino, il padre di Strauss non voleva che il figlio studiasse musica. Il padre di Michelangelo voleva un figlio commerciante. Eppure nessuno di essi si fermò. Come, ne siamo certi, non s’arresterà quel piccolo gregge di ministri fedeli che, pagando sulla propria pelle una fedeltà ormai letta come obsoleta, dietro le ferite dei confratelli sanno scorgere feritoie attraverso le quali scrutare la speranza.
Smettiamola di discutere sull’arte poetica del Bondi ministro o sull’uso errato della legislatura. E iniziamo a sciacquare panni da troppo tempo nella nostra lavanderia. Solo così vedremo la pagliuzza altrui senza scordare la trave nostra.