Da Luca a Matteo
Mentre Luca, con dovizia di dettagli, si sofferma sull’esperienza di Maria che, con sgomento e sorpresa, offre la propria disponibilità ad essere grembo accogliente al Dio che s’incarna, diventandone Madre, Matteo, dopo la lunga genealogia1, sposta la telecamera e si avvicina al vissuto di Giuseppe, lo sposo. Talvolta dimenticato e negletto, quasi terzo incomodo di un idilliaco quadretto familiare madre-figlio, scopriamo invece quanto sia essenziale avvicinarci a lui, per comprendere il Natale e – forse – l’intera economia di salvezza, alla luce della sua forza e della sua fortezza.
Messo alla prova
Giuseppe è messo alla prova: come, se non più di Maria. Una notizia lo raggiunge: Maria, la sua Maria è incinta. Eppure, è innocente e pura. Come crederle? Difficile anche solo pensarlo. Quale potrà essere stata la sua prima reazione? Si sarà sentito tradito, preso in giro? Eppure, qualcosa deve averlo colpito, nelle parole della promessa sposa. Qualcosa deve averlo fatto recedere dall’adempimento pedissequo della “legge di Mosè” che prescriveva la lapidazione2 per chi (specialmente, se donna, in cui la prova incontrovertibile poteva essere proprio l’accertamento della gravidanza) era scoperto in stato di adulterio.
L’uomo “giusto”
Eppure, Giuseppe, nonostante sia definito “giusto”, di fronte ad una situazione che, ad ogni valutazione umana, non può che suggerire un palese adulterio, non pensa come prima soluzione, di denunciare Maria, affinché fosse lapidata, seguendo le prescrizioni. Perché? Probabilmente, sin da subito, aveva percepito qualcosa. Ancora prima di ricevere un sogno quale segno, già il suo pensiero era “ripudiarla di nascosto”3. Se fosse stato certo della colpa di lei, da uomo giusto, avrebbe cercato la giustizia della certezza di una punizione. Invece, non è così. Forse il suo tono, forse i suoi occhi, uno sguardo sincero, il leggero tremolio nella voce, come chi sa il fatto suo, ma, al contempo, è consapevole di dover raccontare qualcosa di difficile da credere. Qualcosa deve avere raggiunto subito Giuseppe, tanto da spezzarne le ferree convinzioni da uomo pragmatico e cercare una sorta di mediazione, per salvare, al contempo, la vita di Maria e la propria reputazione.
Assorto tra i pensieri
Giuseppe era già arrivato ad oltrepassare la “legge di Mosè”. E non si era fermato. Lo troviamo assorto nei suoi pensieri, probabilmente ancora impegnato a soppesare pro e contro che anche il “licenziare in segreto” avrebbe – in ogni caso – comportato per Maria. Il non-matrimonio sarebbe stato senz’altro già sufficiente perché, comunque, gli sguardi della gente emettessero la terribile sentenza: colpevole di adulterio. Un marchio indelebile, incancellabile. Una condanna latae sententiae. Se nemmeno la scelta del licenziamento in segreto riusciva ad acquietarne il cuore, forse, già l’interrogativo sulla verità di quel mistero che portava in grembo Maria lo stava interrogando nel profondo. La perplessità, probabilmente, la faceva da padrone. Ma non capire, per lui, non era comunque sufficiente per condannare.
Sogni rivelatori
È in questo stato d’animo, inquieto e pensieroso, che Giuseppe è colto da un sogno. Già qui troviamo una differenza importante. Se, per Maria, a “scomodarsi” è un messo celeste, tanta è l’importanza di quell’annuncio, atteso dall’intero universo che – quasi – pare rimanere con il fiato sospeso fino alla risposta della giovane alla richiesta dell’angelo, per Giuseppe la comunicazione con il divino risulta avere una mediazione ulteriore. Parla un angelo, sì, ma in sogno. Un dettaglio non da poco. All’uomo contemporaneo, intriso di psicologia, probabilmente, un sogno non dice altro che un desiderio represso, oppure l’esito nefasto di una scorpacciata vespertina. All’ebreo del I secolo, invece, specie se vicino all’alba, un sogno diceva qualcosa della volontà divina. Per cui, Giuseppe, fidandosi di quella comunicazione, che confermava che quel ventre s’andava arrotondando era frutto dello Spirito Santo e non d’amore adulterino, decide di accogliere con sé, Maria, la sua storia e il suo mistero, che cresceva al ritmo di quella gravidanza che avanzava.
… «e prese con sé»
Giuseppe si alza dal sonno e “prende con sé la sua sposa”4 (col Bimbo che porta in grembo). Di nuovo, ricevuta in sogno un’altra ammonizione che gli intimava la fuga in Egitto, prende con sé “il Bambino e sua madre”5. E, al terzo sogno, gli chiede di ritornare in Israele, ancora una volta, prende con sé “il Bambino e sua madre”6.Per tre volte, riceve un sogno. Per due volte, un sogno gli dice dove andare. Eppure, al terzo sogno, la paura ha il sopravvento. La richiesta era di tornare, ma Giuseppe non tornò in Giudea, bensì deviò in Galilea, perché, pur morto Erode, in Giudea regnava il figlio di questi. Ramingo, fuggiasco, senza una patria, nonostante potesse vantare, nel suo sangue discendenza davidica. L’unica sua ricchezza: il Bambino e la Madre.
Il guerriero
Giuseppe è custode del mistero di una natività che sorpassa la comprensione. Custode della Sacra Famiglia. Non ha elmo e scudo, ma un bastone non gli manca mai e, essendo carpentiere, le lame non gli erano certo sconosciute: molto probabilmente, aveva una certa familiarità con ascia, sega, mazza e cuneo, oltreché con pialla e lima… e l’iconografia popolare non gli fa mancare mai un bastone tra le mani. Per appoggiarsi? Certo, ma non solo. Solo uno sprovveduto può pensare di attraversare la Giudea, in compagnia di una donna incinta (magari di notte, per ottimizzare i tempi) senza neanche un’arma con sé, per difendersi!
Del resto, come sarebbe stata la vita di Maria, senza Giuseppe? Forse, non dissimile da quella della Samaritana7, costretta ad andare ad attingere acqua nelle ore più calde del giorno, sotto il sole cocente di quel lembo dell’Impero romano, pur di sfuggire al chiacchiericcio e agli sguardi altezzosi della gente. È innegabile come avere avuto un uomo accanto, esposto con lei alle “intemperie” del giudizio altrui, possa essere stato un sollievo ed un aiuto per la Madre (ed il Figlio).
La forza, del corpo…
Un uomo accanto, nella concretezza. Perché è alle sue spalle che si è affidata la Sacra Famiglia, nei suoi vari traslochi o nel condurre Maria, incinta, in un luogo sicuro per poter dare alla luce il figlio. E alle sue mani operose per poter sopravvivere in un paese straniero, verso cui la furia di Erode li aveva costretti a fuggire. Come, del resto, braccia robuste di Giuseppe avranno sorretto, sostenuto, aiutato Maria a montare la cavalcatura, quando ormai il parto si avvicinava e la vita che premeva nel grembo, facendosi spazio nel corpo della Vergine. È stato un uomo nel pieno del proprio vigore, quello che ha condotto “il bambino e sua madre” nel deserto, in Giudea, in Egitto, per poi far ritorno a Nazaret di Galilea.
… ma anche quella del cuore
Come non pensare che, alla notizia della sua Maria incinta, a Giuseppe non sia tremato il cuore? Non avrà pensato agli sguardi della gente? Non avrà forse pensato al proprio buon nome? Sicuramente sì, se pensa di “licenziarla in segreto”, ma Giuseppe è giusto, non ipocrita: non si lascia spaventare dalle voci di paese, ma mette davanti a tutto, innanzitutto, la donna che ama.
«Giuseppe è un santo virile, non perché è brutale, ma perché da uomo sa farsi carico delle circostanze e le affronta prendendosene la responsabilità»8. Per questo, quindi, la forza di Giuseppe è anzitutto quella del cuore, che si chiama fortezza. È quella forza che, pur con il cuore tremante, ti spinge ad affrontare le avversità.
La sapienza, ma nelle mani
Giuseppe non fa discorsi, anzi: nel Vangelo non pronuncia neppure una parola. Eppure, è immagine della sapienza dei padri. Perché non esiste solo la sapienza dei libri e delle stelle, come quella dei Magi venuti da Oriente, dopo aver scrutato gli astri9. C’è una sapienza concreta, non meno importante, cui attingerà lo stesso Cristo, per le sue parabole. È la sapienza di chi sa scrutare dentro le cose, per carpirne il segreto. Trucioli di legno, utensili e un progetto nella testa. Basta questo perché ciò che appare “da buttare”, di colpo trovi una propria, immediata applicazione. C’è un saper fare, che richiede solo la pazienza di insegnare e lasciar sbagliare. Donare ogni conoscenza, per poi stare a guardare come, da un errore, nasca un ulteriore. In questo processo risiede una generatività che va oltre la carne e il sangue ed è quella che ha consentito la trasmissione della sapienza d’azione, “di generazione in generazione”. È la sfida di fiducia che trapela dall’affidare il proprio sapere a qualcun altro, per poter gioire di avere qualcuno che possa “fare a meno di noi”. È nella bottega di Giuseppe e nel lavoro manuale, metodico, sapientemente ripetitivo ma, al contempo, creativamente innovativo, che Cristo impara a vedere Dio nel quotidiano.
La sua castità e la nostra invidia
Forse è la nostra invidia a farcelo immaginare anziano. Che Giuseppe sia più maturo di Maria è ragionevole: come pensare che un ragazzo, poco più bambino, prenda una ragazza incinta, la porti con sé avanti e indietro dall’Egitto, con la scaltrezza di sapersela cavare anche in terra straniera, anche al di fuori dei propri abituali confini? Allo stesso modo, però, è altrettanto irragionevole che un anziano prende con sé Maria incinta e si sobbarchi un lungo viaggio avanti e indietro, raccattando in fretta e furia quattro carabattole, inventandosi un mestiere in età avanzata, per di più dove nessuno lo conosce? Dire che Maria sia rimasta vergine prima, durante e dopo il parto significa, indirettamente, affermare che Giuseppe le sia rimasto accanto, ma senza toccarlo. E a noi, che lottiamo quotidianamente con la concupiscenza dello sguardo e del pensiero, sembra impossibile che la paglia rimanga accanto al fuoco, senza incendiarsi. Forse, allora, il fatto è che la castità di Giuseppe scomoda le nostre certezze e i nostri alibi perfino più di quella di Maria e allora preferiamo circoscriverla, sminuirla. Meglio lui che noi, come spesso accade.
Castità: “fare spazio”
L’episodio in cui, più di ogni altro, Giuseppe esprime la castità dell’amore non è nemmeno con Maria, nonostante tutto, perché lo vediamo nel ritrovamento di Gesù al tempio, tra i dottori della legge10. Lì, Giuseppe ci mostra come «l’amore casto è l’amore che accetta che l’altro sia diverso dalle nostre aspettative»11. La castità non è solo fisica, ma appartiene, prima, allo sguardo ed alla mente. Rinunciare al possesso è rinunciare al controllo, lasciare che l’altro sbocci, fiorisca, possa dare il meglio anche dove quel meglio non può dipendere da me, perché non è il mio campo. La vera rinuncia è lasciare che l’altro abbia successo non solo dove io potrei avercelo condotto, ma dove io non potrei mai condurlo, in un posto, un luogo, un’abilità che non mi riguardano e che io non so padroneggiare. Ecco perché è necessario un passo indietro.
La sublime arte di sparire
Giuseppe non parla mai. Agisce, fa. Pensa, decide. Prende una risoluzione. Il suo è amore fattivo, concreto, senza fronzoli. Non è un uomo senza paura, al contrario: ne ha, ma la affronta, non si fa paralizzare da essa.
Custodisce la madre e il bambino, sempre, in ogni situazione. Poi, ad un certo punto, di lui non si parla più. È quando compie l’atto educativo più difficile, complesso, doloroso. È stato così bravo, da non essere più necessario. Qualcuno parla della sua morte. Io non lo credo. Sono sicura si dilegui prima, con discrezione, così com’era vissuto. Toglie il disturbo, portando all’apice la sua sapienza educativa: ammirando il figlio del carpentiere diventare Figlio di Dio, con sconcerto di vicini e compaesani. Con quella stessa consapevolezza che sarà di Giovanni Battista: “Lui deve crescere, io diminuire”12.
Rif. Simone Venturini
Fonte immagine: San Francesco Patrono d’Italia
1 Cfr. Mt 1, 1-18. Per altro, insolitamente popolata di donne. Da Racab a Rut, alla donna di Uria, se il vangelo dell’infanzia di Luca è “vangelo di Maria”, la genealogia di Matteo è una genealogia in cui le donne trovano un inusitato spazio, per le abitudini dell’epoca.
2 Cfr. Dt 22, 23
3 Cfr. Mt 1,19
4 Cfr. Mt 1,24
5 Cfr. Mt 2,14
6 Cfr. Mt 2,21
7 Cfr. Gv 4
8 L.M. Epicoco, Con cuore di Padre, San Paolo, 2021, n. 22
9 Cfr. Mt 2, 1-12
10 Cfr. Lc 2,41-52
11 L. M. Epicoco, op.cit., n. 28
12 Cfr. Gv 3, 30
Una risposta
Bellissimo questo commento l’immagine di Giuseppe che ne viene fuori e’ veramente esempio