«Mi sentivo libero da quel timore quasi morboso che prende, penso, ogni giovane prete quando gli vengono alle labbra certe parole, certe immagini che si prestano al ridicolo, che sono ambigue e che, stroncando ogni nostro slancio, ci confinano forzatamente in austere lezioni dottrinali, con un vocabolario che sarà anche frusto ma in compenso è così sicuro che non urta nessuno e almeno ha il merito di scoraggiare, tanto è vago e noioso, ogni commento ironico».(1)
Preoccupato per quella forma di «cristianesimo decomposto» al quale aveva condotto la volgarità della cultura, il curato di Georges Bernanos parlò in questi termini della dimensione della fede: «non si perde la fede, essa cessa piuttosto di plasmare la vita».(2) In tale contesto le vecchie menti invocano la tradizione. Quelle giovani l’evoluzione e la rivoluzione: forse la riforma. Non si tratta di sapere se è meglio o peggio: si tratta di capire chi comanda l’uomo. O meglio: come salvaguardare l’originale freschezza di un evento fondatore con l’esigenza di uno stile capace di muoversi dentro contesti storici mutevoli. Meglio ancora: come tenere viva la dimensione ecclesiale senza pagare lo scotto di un ulteriore scisma? Perché la storia ci ha consegnato una paurosa associazione: riforma – rivoluzione.
«Non è forse meglio […] mostrare come la chiesa sia ancora più grande, più bella, più degna della loro fiducia e del loro amore, quando è in procinto di riformarsi, più di quando viene situata in un empirico fittizio e illusorio d’immobilità e di perfezione?».(3)
E’ questa l’innamorata riflessione elaborata da padre Yves Congar nel suo testo Vera e falsa riforma della Chiesa.(4) Incuriosisce subito un fatto: pubblicato la prima volta nel 1950 il testo venne ri-editato nel 1968. In mezzo s’assistette ad un concilio ancor oggi prodigo di moniti, suggerimenti e aneliti. Se negli anni della prima edizione lo scopo era quello di liberare il Vangelo in un mondo che richiedeva l’invenzione di nuove strutture assicurando uno spazio d’azione, nel 1968 il contesto era assai diverso: il mondo impone i suoi problemi e la scommessa è quella di modificarli dall’interno. Tra il 1947-50 e il 1968 la sorpresa di un inatteso clima culturale nuovo proveniente dall’alto, dalla gerarchia. Mutando il clima, muta anche l’esigenza chiesta al dato cristiano: non più un suo adattamento alla società, ma una ri-formulazione in risposta alla contestazione che ne fa un mondo improvvisatosi adulto:
«si richiede che l’aggiornamento conciliare […] si spinga fino ad un totale radicalismo evangelico e all’invenzione, ad opera della Chiesa, d’un modo d’essere, di parlare d’impegnarsi, che risponde alle esigenze d’un totale servizio evangelico al mondo. L’aggiornamento pastorale deve andare fino là».(5)
Ne emerge una provocatoria e appassionante oscillazione tra il dato (la vita di Dio in Cristo) e l’agito (lo sviluppo nel tempo della pienezza iniziale). Un lavoro teologico perché per padre Congar la teologia non è pura speculazione ma gesto che trova il suo locus theologicus nella Chiesa con la sua storia. Riflettere sulla chiesa significa quindi approfondire l’immutabile e il mutabile di questa realtà: entrambi necessari per rimanere fedeli al principio. Volti ad un passato particolare, se ne dimostra la verità in base alla capacità di agire nel presente salvaguardando quell’eterno che, seppur abitante il tempo, non s’usura. Ma fedeltà non è sinonimo di sopravvivenza bensì di contestazione rischiosa e paziente di forme acquisite nel tempo per renderle adeguate all’uomo d’oggi. Uno spazio di critica attiva sembra essere per Congar un presupposto minimo per permettere la sopravvivenza di un pensiero e, in seconda istanza, di una realtà come la Chiesa stessa. Citando Papini offre un’immagine emblematica: «La pietra con la quale ci battiamo il petto è una che non ci getteranno i nostri accusatori». Critica, riforma e aggiornamento, quindi, come elementi che richiamano e si riallacciano alla vita. Se la critica è un grido, alla sua radice c’è un affetto profondo secondo il teologo francese. Un affetto che trova la sua delucidazione in atteggiamenti precisi: un attaccamento profondo e una volontà che vanno oltre le delusioni storiche, la serietà di riflessione delle sue basi, la provenienza laicale (l’ecclesiologia del Popolo di Dio del Vaticano II) e il ritorno alle sorgenti. Ad essere tirato in ballo è l’inadeguatezza duplice di certe forme: verso il contesto nelle quali si trovano ad operare e in rapporto alla freschezza dell’ideale evangelico. Nasce qui la duplice strada per un riformismo: l’esigenza di gesti veri e il ri-adattamento dei modi di fare. Dello stile. Scrive padre Congar: «Dinanzi ad un mondo che non ammette più il Vangelo se non presentato da una chiesa irreprensibile, non ci si può più permettere alcunché di meccanico, di comodamente adagiato nel letto che i “secoli della fede” avevano preparato alla Chiesa».(6)
Dalla lettura del suo testo emerge chiara la battaglia: non tanto ricondurre una forma di Chiesa al suo archetipo, ma inventare delle nuove forme a partire dallo spirito delle origini e dalla tradizione sempre vivente della chiesa sotto la guida del magistero. Consapevoli che non esiste pensiero che non sia al tempo stesso fecondo e pericoloso. C’è d’aiuto la distinzione che Congar fa riprendendo la distinzione formulata da Mohler: quella tra gegenstatz (il contrasto) e widerspruch (la contraddizione). La chiesa è la somma di tanti punti di vista tra loro in contrasto: provvidenziali perché richiamano il fluttuare della vita. Ma esigenti in quanto chiedono un’opera di continuo superamento sotto la spinta di punti d’insoddisfazione che chiedono d’essere appagati: sono gli elementi reattivi presenti in germe nella Chiesa. Ma nell’attimo in cui questi elementi reattivi perdono l’aggancio con l’insieme diventano contraddizioni che, rifiutando di vivere nel tutto, sfociano nell’eresia. La contraddizione, pertanto, è il contrasto uscito dalla comunione. Un’intuizione, seppur ambivalente, che se si mantiene nell’unità del tutto può diventare utile alla riforma. In caso contrario la chiesa deve intervenire: non lo facesse «sarebbe segno che la Chiesa è morta o moribonda o in letargo».(7)
Nel caso di un intervento per la salvaguardia dell’origine, la Chiesa presterà attenzione a due rischi: cadere pure lei nell’unilateralismo della condanna e il pericolo di offuscare anche ciò che nell’intuizione originaria c’era di vero. Affascinante un passaggio citato nel volume:
«La verità e l’errore non sono separati da una zona intermedia che non apparterrebbe né all’una né all’altro e che sarebbe prudente evitare. Al contrario, essi si toccano e su tutta la linea: la verità va fino all’errore, a senso unico; arrestarla troppo presto, anche se lo si fa per allontanarsi maggiormente dall’errore, significherebbe cadere nell’errore, significherebbe chiamare falso ciò che è ancora vero».(8)
Mantenere la verità, pertanto, significa abitare questa zona rischiando l’avventura. Consapevoli che «se la si oltrepassa, si è andati troppo lontani, si è caduti nell’errore, ma se si resta al di qua, non si è andati abbastanza lontano, non si è garantito alla verità tutto il suo sviluppo».
Il margine tra servitore fedele e servitore incapace è molto sottile.
Alla luce di tutto ciò, come riformare la chiesa senza strappare con essa? Qui emerge tutto l’amore appassionato e in certi tratti commovente di un padre – teologo che tratteggia quattro passi attraverso i quali offrire vita alla Chiesa.
«Il primato della carità e della dimensione pastorale».
L’intuizione del profeta deve sempre svilupparsi nella chiesa: la sua capacità di semplificazione evita di cadere nell’unilateralismo se non diventa estraneo all’interno della sua casa. Quando il fatto cristiano diventa pura speculazione e non entra in rapporto con il quotidiano rischia di sfociare nell’eresia. Questa condizione tiene accesa nel riformatore un’esigenza molto viva per padre Congar: non si chiede un’altra chiesa, ma una Chiesa diversa. Ecco l’importanza della dimensione pastorale nell’azione del profeta – riformatore: l’esperienza fatta a Folleville in Piccardia e a Chatillon ha ispirato nell’animo di un Vincenzo de Paoli una riforma riuscita all’interno della sua chiesa perché «il ministero delle anime è una grande scuola di verità».(9) Ancor più emblematico il parallelo tra Lacordaire e Lamennais: entrambi geniali, innovatori e creativi. Ma l’esito fu diverso: il secondo – per rimanere fedele alla sua idea – strappò con la chiesa, il primo riformò usando come strumenti la santità e la conversione. Fedele all’intuito di Mohler: «il cristiano non deve cercare di perfezionare il cristianesimo, ma aspirare a perfezionarsi in esso». La storia racconta come le riforme fallite sono accomunate dall’essere costruite intellettualmente correndo il rischio di ergere a sistema un’intuizione profetica ma personale. La sintesi di questa condizione abita queste parole del padre francese: «Il problema che si pone è quello di sapere se, in partenza, s’accetta la realtà della chiesa concreta come un dato regolatore o se, sottolineando l’idea d’infedeltà e di prevaricazione della Chiesa stessa, si attribuisce al proprio pensiero il ruolo di criterio infallibile».(10) Bloccarsi in se stessi e far ruotare tutto attorno fino a diventare il principio regolatore del tutto. La biografia di Alfredo Loisy ne attesta la possibilità.
«Restare nella comunione del tutto».
Oltre la semplicità che ne evoca, questo principio trattiene un fattore decisivo: il legame con la vita del corpo ecclesiale. L’immagine della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli è evocativa: stanno nello stesso luogo, con un cuore medesimo formano un’unica comunità. Ma c’è un aspetto quasi commovente, di solidarietà partecipata che nasce dall’essere nel tutto ed è la possibilità di supplire alle nostre lacune sfruttando l’ospitalità di altri significativi che, accogliendoci, esercitano una forma di passaggio della pienezza originaria.(11) Le ultime parole di Lutero sono una fotografia cristallina:
«Nessuno può comprendere le Bucoliche di Virgilio se non è stato pastore per cinque anni, nessuno può comprendere le sue Georgiche se non è stato per cinque anni agricoltore; nessuno può comprendere Cicerone nelle sue Lettere se non ha partecipato per vent’anni agli affari d’un grande Stato; nessuno pensi di comprendere a dovere le Scritture se non ha governato per cent’anni le Chiese con Elia ed Eliseo, con Giovanni Battista, con Cristo, con gli apostoli».(12)
Lutero se n’è andato al suo destino, ma l’intuizione è profonda e permane: nessuna forma o formula è in sé capace di trattenere la pienezza originaria e originale. Criterio per ogni cristiano, lo è maggiormente per chi nella chiesa ha un ruolo “motore”, di sviluppo verso una tensione più piena, il carisma dell’accelerazione. Per essere riformatori e non rivoluzionari, pena l’abbrutimento di esperienze, in sé geniali per bellezza e profondità, che rischiano di tradursi in eresia se non regolate dalla vita della chiesa. Ma come ascoltare. San Benedetto ai monaci consigliava attonitis auribus: con orecchio incantato, attonito e attento, capace di quell’attenzione gioiosa che esplode nella dimensione artistica. In teologia si dice sentire cum ecclesia: lungi da un’obbedienza tradotta in servilismo, questo sentire richiama la fierezza e la semplicità dell’obbedienza del bambino. Per evitare – vittime di una pertinacia che fa di un’idea errata un’eresia – di sostituire un’interpretazione personale al sensus ecclesiae.(13) Come conciliare un’esigenza riformista con la dimensione gerarchica senza essere scismatici? Molte volte l’iniziativa non s’accende all’ombra del campanile, ma nell’ultima contrada del paese. L’anelito alla riforma abita più la periferia che il centro dove, per ovvie spiegazioni, meno fantasia scompagina le carte più sereni rimangono gli animi. Ma le «iniziative possono venire nella Chiesa dall’autorità suprema come dal più umile dei cristiani» (Mons. Dubour al «Congrès des Oeuvres»). Nonostante ciò, per una dovuta specializzazione, ogni parte del corpo della chiesa ha le sue competenze: al centro spetta la salvaguardia della tradizione, alla periferia il richiamo all’innovazione. Per un progresso nella continuità. Entrambe, da sole, non conducono una riforma condivisa e, pertanto, partecipata. C’è un consenso da ottenere. Avendo la maggior parte delle riforme la cittadinanza in periferia, padre Congar incide i due pendoli sui quali far viaggiare l’oscillazione: la liberta d’espressione e l’approvazione gerarchica che – accogliendo – approva e corregge. Pur preferendo ciò ch’è formato a ciò che si va formando, la storia racconta di casi in cui la gerarchia ha fatto sue istanze giunte da periferie lontane. La biografia di Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman sono due degli esempi più eclatanti. Ma l’anonimato ne custodisce i lineamenti di mille altri.(14) Il ritmo è presto detto:
«La vita concreta della Chiesa si realizza in un perpetuo scambio tra l’Urbs e l’Orbis. L’Orbis porta continuamente all’Urbs le sue aspirazioni, i suoi problemi, il suo appello; l’Urbs è continuamente assillata dalla sollecitudine di tutto l’universo. L’Orbis porta all’Urbs il suo dinamismo, e l’Urbs gli dà limite e misura».(15)
Per accendere quel «risveglio» che non profuma di un nuovo cristianesimo ma di una forma più realizzata della pienezza originale dell’atto fondatore. Un sogno da con-dividere perché il singolo è troppo solo per tentare l’avventura senza l’àncora di salvataggio di uno scambio vitale.Il riformatore ha l’obbligo della sottomissione. Ma c’è una contro-partita da salvaguardare nel libero scambio nel mercato dove viaggiano i passi profetici e le pietre miliari della tradizioni: la rappresentanza, ovvero la capacità che deve abitare il potere centrale di saper cogliere – anche qui attonitis auribus – le istanze della periferia. Che, qualora avvertisse di non essere captata, non esita a cercare “uscite di sicurezza” dannose per entrambi. Tale principio, in sintesi, ci porge un’avvertenza: sia in città che in periferia il rischio della solitudine e dell’isolamento è dannoso. Oltrechè in-fruttuoso.(16)
«La pazienza; il rispetto dell’attesa».
Perché un riformismo sia attuabile chiede – nella logica evangelica che padre Congar sposa – la dimensione della pazienza. Proprio perchè tutte le riforme sono una specie d’anticipazione dell’escaton finale, chi le firma tenderebbe ad affrettarne la realizzazione. Con la possibilità funesta che l’im-pazienza sia facilmente annodabile ad una lettura frettolosa della realtà. Anche in questo caso Lutero ha tracciato un precedente contro il quale interrogarci spesso.
La dimensione della pazienza si ricollega molto bene alla realtà, già abbozzata nella prima condizione, della storicità del fatto cristiano. Fosse teorema astratto e intellettuale l’impazienza potrebbe pure starci, ma nell’attimo in cui entra in gioco la dinamica dell’esistenza, i ritmi impongono che all’impazienza della rivolta si unisca la pazienza del certosino. Padre Congar è convinto che la dimensione dell’attesa e la condizione della pastoralità non attenuino la potenza di un’intuizione profetica ma la conducano a degli adattamenti per renderla fruttuosa nella Chiesa. Anche se il rischio di viaggiare in solitario è gigante, soprattutto per una stimata reputazione di chi viene ostacolato. Scrive Congar: «perciò, come rileva Newman, l’innovatore fa figura di grande iniziatore misconosciuto, perseguitato, mentre l’autorità che lo condanna appare retrograda e tirannica».(17) E’ la stima di cui gode l’eretico e il perseguitato oggi. Ma – continua – «l’innovatore o il rinnovatore impaziente compromette purtroppo il verso col falso; volendo accelerare lo sviluppo ne ritarda il movimento».
Tra l’aggredi e il sustinere abita il successo di un messaggio.(18)
Il ritorno al «principio di tradizione, non l’introduzione d’una “novità” mediante un adattamento meccanico».
Due possono essere i principi regolatori di una riforma: l’elemento nuovo da introdurre o la realtà da rinnovare. Per evitare l’estremismo si propone la visione di una twice born: la seconda nascita costituita dall’intuizione del profeta avviene spiritualmente nella Chiesa. Tornare alla tradizione non è legare il presente ad una forma singola apparsa nel passato: c’è differenza tra «ritorno alle sorgenti» e «archeologismo». Significa
«pensare la situazione nella quale siamo impegnati alla luce e nello spirito di tutto ciò che una tradizione integrale ci insegna sul senso della Chiesa […] Revertimini ad fontes […] è rientramento sul Cristo nel suo mistero pasquale».(19)
Basti riflettere sulla riflessione di Foerster citata da Congar per intuire come il vero sviluppo della tradizione non potrà mai essere il frutto del lavoro di un singolo ma chieda l’opera e la riflessione di almeno una generazione. Per purificare, discernere ed equilibrare il tutto.
«Il modernismo sente con ragione che molte anime appartenenti alla Chiesa aspirano ad una maggiore libertà […] ma dove sbaglia, è nella maniera interamente temporale di concepire quest’aspirazione e di credere che basta ampliare il punto di vista della Chiesa per riconciliarla con la cultura moderna, mentre ciò che si esige in realtà, è la piena risurrezione della grande tradizione…».(20)
Per non concludere
Dalla riflessione sul testo di Congar e immaginando un’opera di riforma strutturata attorno a questi quattro passaggi, ci sembra che emerga anche uno stile nuovo del fatto cristiano in sé.
Parto dalle parole di Congar:
«Dinanzi ad un mondo che non ammette più il Vangelo se non presentato da una Chiesa irreprensibile […] occorre un “cristianesimo di choc” ora non vi è che un mezzo onesto per produrre uno choc, ma si tratta di un mezzo efficace: essere veramente se stessi, attingendo genuinamente allo spirito delle origini».(21)
Una simile esigenza riformista trova eco nel pensiero teologico di Michel de Certeau. Il nome del gesuita francese (1925 – 1986) è spesso collegato agli studi sulla mistica del XVI – XVII secolo. Per onestà verso il suo pensare e teologare, dovremmo per lo meno aggiungere anche un’altra sfaccettatura: la sociologia del quotidiano attraverso la quale spesso e volentieri ha affrontato la questione del destino attuale del cristianesimo. La crisi, per de Certeau, è dunque ramificata in una triplice maniera: l’atteggiamento della cultura che considera il cristianesimo nel suo lato estetico, le frange di credenti che decidono da sé il senso del loro essere e operare, la chiesa che pretende di uscire dalla sua crisi incentrandosi sui problemi della società e riaffermando la sua autorità.
Familiarizzando con la sua opera – Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo(22) – De Certeau parte da un’ipotesi: all’interno del reticolo di tragitti che i vari sistemi impongono all’uomo, esso possiede una risorsa di creatività e un margine di libertà che impediscono ai sistemi di fissargli la vita quotidiana in modo equivoco. Nasce qui la sua celebre distinzione tra «strategia» e «tattica» che gli servirà per mostrare come il fattore più debole riesca a trarre vantaggi da risorse che gli sono estranee. Forse vale la pena definire i due termini ed esplicarli con un esempio.
La «strategia» è l’agire di una struttura che stabilisce un luogo proprio attraverso la delimitazione, elabora un codice linguistico e fissa a priori un’identità in modo da stabilire i rapporti col diverso. Elaborare una strategia comporta due effetti: la scelta di un luogo attraverso il quale tentare di controllare il tempo (quasi una manovra per preservarsi dall’inedito della storia) e dello sguardo: l’agire strategico avanza la pretesa di una visione globalizzante, quindi, di ridurre l’esistente al visibile. La «strategia» mostra l’agire di un sistema forte e chiuso che riduce al minimo le possibilità dei singoli. Il potere di manovra – e anche del sapere – è legato alla forza che il soggetto che agisce in modo strategico ha di mantenere chiuso il proprio sistema. Per mantenersi vivo.
La «tattica» è il tentativo di dare scacco matto ad una strategia insinuandosi in una falla da lei prodotta attraverso azioni e incursioni di sorpresa in tempi e spazi che nessuno s’aspetta. Si tratta di un lavorare di mossa in mossa senza aver la possibilità di capitalizzare i tesori guadagnati. Detto con un’immagine. Se il singolo non può modificare un luogo già dato, non gli è però preclusa la possibilità di appropriarsene in modo diverso. E’ l’esempio della strada che noi tutti percorriamo: «la strada geograficamente definita da un’urbanistica è trasformata in spazio dai camminatori».
Lavorare di mossa in mossa sembra essere la chance per il cristianesimo d’oggi: non godendo più di un luogo proprio, deve re-impossessarsi della sua credibilità attraverso delle scorribande inaspettate e puntuali dentro le falle di una cultura che ne ha strutturato il luogo. Non impedendo, però, al singolo di appropriarsene in maniera personalizzata.(23) Ecco, quindi, l’invito di Michel De Certeau a combinare delle incursioni e delle azioni di sorpresa – quel «cristianesimo di choc» accennato da Congar – dove nessuno se l’aspetterebbe. Tattica che, lavorando di mossa in mossa, conquista terreno nella misura in cui sa far spazio per lasciar accadere movimenti a lei estranei. Ma sempre agganciati ad un evento fondatore che, solo, è in grado di offrire un nuovo stile di essere.
«La speranza di riforma della chiesa non serve a togliere potere al papa per darlo ai vescovi o altre questioni di tal genere… speranza di riforma della chiesa è quella di pensare che il tempo in cui noi viviamo non è destinato alle utopie “del possibile” e nemmeno all’emotività delle sétte protestanti o cattoliche; c’è una speranza per cui le cose possono avere delle modificazioni radicali, possono trovare delle verità maggiori, anche se adesso ancora ci sfuggono».(24)
Una nuova modalità di costruire la verità.
Per tentare una riforma strutturale e stilistica del fatto cristiano.
Note
(1) BERNANOS G., Diario di un parroco di campagna, Oscar Classici Mondadori 200718, p. 24 (tit. or. Journal d’un curé de campagne, Librairie Plon, 1936).
(2) Ibidem, 101
(3) Ibidem, 18
(4) CONGAR Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book 19942, pp. 9 – 253 (tit. or. Vrai et fauste riforme dans L’Eglise, Led Editions du Cerf, Paris 1968)
(5) Ibidem, 12
(6) Ibidem, 47
(7) Ibidem, 185
(8) Ibidem, 188
(9) Ibidem, 197
(10) Ibidem, 202
(11) Il concetto di «ospitalità del Nazareno» fa parte della riflessione che il teologo francese Ch. Theobald da anni porta avanti sul cristianesimo come stile. C’aiuta un passaggio: «Di episodio in episodio i racconti evangelici riescono a mostrare la stupefacente distanza del Nazareno rispetto alla propria esistenza. Parlando di un altro, del “Figlio dell’Uomo” per esempio, del “seminatore” o anche del “padrone di casa” quando deve parlare di se stesso, egli aggiorna di continuo la sua identità, impedendo che venga determinata prematuramente. Lungi dall’essere un’astuzia o uno stratagemma, questa postura è invece l’espressione della sua singolare capacità di apprendere da ogni individuo e da ogni situazione che gli si presenti» (THEOBALD CH., «La teologia nella post – modernità: il cristianesimo come stile» in Il Regno attualità, 14 (2007) 480 – 501). In questo senso parla di una «pastorale della generazione» come conseguenza del carattere pastorale del Concilio Vaticano II: «La “pastorale di generazione” non è una pastorale tra le altre e meno ancora una tecnica particolare, quanto piuttosto un modo per risalire al principio stesso della dimensione pastorale – ovvero le condizioni che rendono possibile la nascita e la maturazione della fede -, risalita resasi possibile e necessaria proprio in seguito all’erosione istituzionale e culturale conosciuta dalla Chiesa, che lascia spazio a nuove forme di generazione alla fede» (THEOBALD CH., «E’ proprio oggi il “momento favorevole”, op. cit., 367).
(12) In CONGAR Y., op. cit., 204
(13) Torna simpatico il riferimento alla sindrome di donna Prassede cantata dal Manzoni scrittore, la quale «diceva spesso agli altri e a se stessa che tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, che era di prendere per cielo il suo cervello» (I Promessi Sposi, cap. XXVII). Ma anche il lapidario ritratto-epitaffio che ne fa in punto di morte è emblematico come sintesi di uno stile d’esistenza: «Di donna Prassede, quando si dice ch’era morte, è detto tutto» (XXVII).
(14) La biografia stessa di Padre Congar è l’avventura di un pensatore scomodo che, testimoniando con sofferenza la sua fedeltà alla Chiesa, mostra come nessun parto avvenga senza dolore. Scrive Melloni: «Una ventina d’anni dopo, all’inizio degli anni Trenta, si presenta una nuova stagione di fermento di cui sono protagonisti alcuni teologi. Una buona parte di loro morirà cardinale, di una porpora venuta da vecchi, in limine vitae, come accade – ad esempio – al padre Yves Congar. Sono teologi che a Lione, a Monaco di Baviera, a Parigi si lasciavano interrogare dalle caratteristiche della società contemporanea […] anziché comportarsi come bravi cattolici latini ai quali doveva bastare e avanzare il magistero “onnivoro” di Pio XII» (MELLONI A., «La Chiesa che si riforma» op. cit., 9)
(15) Ibidem, 219
(16) A tal proposito, John P. Beal, presbitero della diocesi di Erie (Pennsylvania – USA) elabora un’interessante riflessione a partire dallo scandalo degli abusi sessuali accorsi in America dal 2002. Questo «popolo alla deriva» è il frutto di un malessere causato da un clima ecclesiologico mutilato. Ponendo l’accento su una forma cristomonistica di Chiesa (tutto l’insegnamento autentico, la santificazione e il governo procedono verso il basso) si riserva a coloro che sono in basso nella gerarchia «l’assenso passivo al magistero autorevole, la ricezione dei sacramenti che vengono amministrati e l’obbedienza alle legittime direttive». Tendendo tutto verso l’alto il grado di responsabilità, la gerarchia dimentica il bisogno di imparare prima di insegnare, di santificarsi prima di santificare, di ascoltare prima di governare. In questa mentalità il dissenso è segno d’infedeltà e la burocrazia protegge in una «foschia di fantasie» la gerarchia che diventa agente di comando e di controllo dall’alto.
Con un linguaggio rubato al marketing, Beal illustra la soluzione di un sifatto gioco nel piano dell’ecclesiologia. E lo fa con un esempio. Quando uno è insoddisfatto di un prodotto o smette di acquistarlo e si rivolge ad un prodotto analogo della concorrenza («l’uscita») o esprime la sua insoddisfazione alla direzione («la voce»). Nella Chiesa, dove la fedeltà alla direzione tende ad essere alta – succede lo stesso: ci si rivolge alla direzione nell’attesa di una correzione (l’opzione della voce). Ma se non arriverà risposta s’eserciterà l’opzione dell’uscita. Per Beal la mancanza di risposte all’opzione della voce ha causato un allontanamento dei sacerdoti e il mostrarsi della Chiesa come una forma di «monopolio pigro». (cfr BEAL J. P., op. cit., 121 – 135) Scriveva il padre Congar: «i nostri contemporanei conoscono un nuovo campo di scandalo: quello che può dare la Chiesa nei confronti del movimento della storia nel quale il mondo degli uomini è inserito. Più che dei peccati dei suoi membri, ci si scandalizzerà delle sue incomprensioni, delle sue grettezze, dei suoi ritardi» (In CONGAR Y., op cit., 58).
(17) Ibidem, 242
(18) «Vedi, i superiori hanno ragione a consigliare la prudenza. Io stesso sono prudente se non posso essere di meglio. E’ nel mio carattere. Non c’è niente di più stupido di un prete sconsiderato che faccia la testa matta, così, per darsi un tono. Ma resta il fatto che le nostre vie non sono quelle del mondo! Non si propone agli uomini la verità come fosse una polizza di assicurazione o un disintossicante. La Vita è la Vita. La Verità del buon Dio è la Vita. Diamo l’impressione di essere noi i portatori, ma è lei che ci porta, caro ragazzo» (BERNANOS G., op cit. 77).
(19) Ibidem, 256
(20) Ibidem, 262
(21) Ibidem, 58
(22) La mia riflessione nasce dallo studio del testo MICHEL DE C., Debolezze del credere, op. cit. e dal contributo di MATTEO A., «Il destino attuale dell’esperienza credente. La lezione teologia di Michel de Certeau» in Rassegna di Teologia 49 (2008) 31-58.
(23) L’elaborazione della sua tattica s’articola in cinque mosse: il «permesso», la «verifica», l’«autorità al plurale», la «prassi» e il «linguaggio simbolico». Ne esplichiamo il contenuto in uno schema riassuntivo in calce al seguente capitolo.
(24) MELLONI A., «La Chiesa che si riforma», op. cit., 20