tariconeCorreva l’anno primo del Grande Fratello, l’era in cui il voyeurismo dei telespettatori ancora doveva fare i conti con l’assuefazione da talk-show televisivi che tardò nell’avvento solo qualche anno. Era l’epoca del pizzaiolo Salvo, della Gatta Morta Marina, di Cristina Plevani: di Pietro Taricone, il guerriero apparso dal nulla come tutti gli altri. Muscoli ben scolpiti, l’ars loquendi dei navigati sciupafemmine, la simpatia del meridionale che approda allo schermo della tv, la cordialità di chi, come i più, era sbocciato dal nulla dell’anonimato mantenendo le sembianze del ragazzo della porta accanto. Eravamo all’esordio di una potentissima arma di distrazione (molto più nociva della distruzione) di massa, quella che alla fatica del quotidiano vivere propone il surrogato della superficialità fino a far diventare il mondo dei reality l’opposto della realtà che sognano nella carta di rappresentare: dalla riproduzione fedele della realtà all’elogio spudorato della pazzia. Fino a condurre intere schiere di storie giovani ad identificare la realizzazione di una vita con la partecipazione anche ad un semplice provino. C’era a quel tempo Pietro Taricone: ma ora non c’è più, a differenza di quella “casa-tugurio” ancora lungi dall’essere demolita.
Ma ogni storia necessita di una traduzione personalizzata. E pur restio a questa forma mediatica – che non informa perchè non riesce a tenere in forma lo spirito dell’uomo -, del Taricone nazionale mi piacque la sua follia di mettersi contro quel Maurizio Costanzo che dei personaggi sfrutta sempre l’eccesso per poi castigarli al loro inevitabile oblio. Si rifiutò di andarci e, probabilmente, pagò di persona l’essersi messo contro Maurizio Il Magno: ma non ne fece più di tanto menzione, rimanendo fedele a quella richiesta urlata in diretta il giorno in cui uscì dagli anfratti della casa di Cinecittà: “Ho fatto il macho, ma ora voglio riprendermi la vita”. Poteva essere un’autostrada la sua vita: scelse d’arrestarsi nel pieno della gloria per inseguire quel sogno di diventare attore. Non facile spegnere le luci di una ribalta che velocemente acceca e conquista per rimettersi l’umile vestito di chi, sudando, cerca di conquistarsi il suo spazio, la sua dignità, la sua voglia matta di primeggiare in un mondo di fotocopiati Mantenendo quell’onestà tutta familiare che, in prossimità delle elezioni a cui lo volevano candidare, gli fece dire: “Ero nessuno. Dopo cento giorni che ho girato in mutande e sparato fesserie sono una celebrità”. Questo è il Taricone che a dieci anni dalla sua improvvisata televisiva ci piace ancora ricordare.
Non è perchè un legno sta nell’acqua che diventa un coccodrillo, tramandano i vecchi africani come lezione di vita e dignità. Perchè se un giorno ci s’accorge che la piccola barchetta dell’esistenza è stata sballottata nel mezzo dell’oceano da una tv-titanic rimangono solo due possibilità: andare al Costanzo Show per ridere filosofando nell’attesa che la barchetta s’inabissi o arrestarsi e chiedersi come fare per ritornare a riva e riprendersi il timone dell’esistenza. Perchè c’è ancora qualcuno che al ruolo di marionetta televisiva antepone la sana arroganza di sentirsi capace d’essere molto di più. O almeno di tentarci.
Ma tutto questo in televisione sembra essere una favola degna delle migliori narrazioni di Fedro o di Esopo. Una favola che stavolta, però, non potrà avvalersi di un lieto fine. A meno che l’intrigo di una morte non riaccenda i flash sugli aspetti segreti del guerriero sorridente che in un mondo di pazzi raccomandati seppe tenere il senso della realtà.

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