La liturgia non guarda il calendario
L’inizio della scuola è ormai alle porte. La Chiesa, specialmente quella cittadina, si allinea al ritmo: aumentano le Messe, diminuite in luglio ed agosto, riprendono le attività collaterali all’annuncio di Cristo. La Parola di Dio, però, non teme di dare strappi, chiamandoci ad argomenti profondi e costitutivi, che mirano a renderci partecipi del padre e del figlio, unificati da un amore che non livella le differenze.
«Saprai»
«Saprai che io sono il Signore, il tuo salvatore e il tuo redentore, il Potente di Giacobbe» (Is 60, 16)
garantisce il profeta.
Non parla di fede. Parla di conoscenza. Ai nostri occhi un po’ illuministi, la sensazione è di una certezza maggiore. È davvero così? La conoscenza, nell’accezione ebraica più che in quella greca, non è solo una conoscenza intellettuale. Presuppone una commistione di acquisire conoscenza come informazioni, ma anche di esperirne la realtà. In questa concezione, la conoscenza è – anche – imprescindibilmente un’esperienza da vivere in prima persona.
Mosè e il nome di Dio
Una delle prima esperienze che gli Israeliti vivono, rispetto al proprio Dio, è quella di poterlo riconoscere in un nome. Scoprire il nome di Dio non è semplice. È una conquista: lenta e faticosa, che coinvolge e accompagna Israele, attraverso la sua storia di popolo.
Un Dio di famiglia
La prima caratteristica che Mosè conosce è che Dio è intriso della storia del proprio popolo, conosce i nomi di famiglia e a loro si rivolge, in prima persona:”Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”1.
Tre nomi, tre capostipiti. Tre diversi modi di accedere al sacro. Eppure, tre riferimenti, cui il popolo guarda, per comprendere chi essere che relazione intessere col proprio Dio.
Un Dio che si accorge
La seconda caratteristica che emerge ci parla di un Dio attento, premuroso, che presta attenzione. Che si rende conto della sofferenza del proprio popolo in terra d’Egitto2. Ha perso il bene più prezioso, che Dio stesso aveva allegato alla vita: la libertà. Forse, per buona parte di quel tempo, non gli è mancato il necessario (tanto è vero che, più avanti, rimpiangerà le cipolle d’Egitto3), ma era privo di ciò che distingue un uomo da una bestia: poter scegliere liberamente cosa fare della propria vita.
Un Dio che c’è
Forse, la più celebre di tutte è questa. Un Dio presente. Dio, come fonte dell’essere, a cui ogni esistenza si abbevera, per poter sussistere. La base della ricerca ontologica occidentale. Tutto nasce da una domanda: “Qual è il tuo nome?” “Io sono colui che sono”4. Senza l’essere, cosa rimane? «Senza di me, non potete fare nulla»5, dirà Cristo.
Dio cambia tutto
“Il più piccolo diventerà un migliaio, il più insignificante un’immensa nazione”(Is 60, 22)
Così conclude il profeta, dopo aver descritto l’avvento del Salvatore come un cambiamento non solo epocale, bensì radicale. Perché non è solo un cambio esteriore, come un cambio d’abito su di un palcoscenico: cambia l’abito, ma non chi lo indossa. Il cambiamento più radicale è quando è lo sguardo a cambiare. Perché, a seconda dello sguardo, tutto cambia. La pioggia è il desiderio del contadino, perché fecondi la terra, ma è il terrore del vasaio perché ne distrugge l’opera che attende il calore del sole per asciugarsi. Solo in Dio, la realtà è riconciliata, perché il suo sguardo riesce a vedere la realtà tutta intera. Per questo, riesce a cogliere l’autenticità: non si tratta di vedere qualcosa che non c’è, ma di far emergere ciò che è latente.
L’ingiustizia della morte
«Fratelli, se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15, 17)
Questione di sguardo, anche in questo frangente. La morte ci annichilisce, ci annienta, ci frastorna. La vita intera ci chiede l’eternità. Il nostro desiderio chiama a sé il futuro, vedendolo già presente. La morte non è altro se non un’ingiustizia, di fronte alla quale protestare.
“Più in là”
Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»6.
Ho sempre trovato efficace quest’immagine che ci regala la brevissima poesia di Montale. Guardare alla vita, che straborda e risplende, in un cielo di fine estate, ci rimanda al nostro desiderio d’infinito: non lo possiamo conteggiare, comprendere, assimilare, ma vorremmo conquistarlo come fosse una montagna da scalare, rincorrendo, un pezzetto alla volta, questi “più in là” che domandano una vita senza fine, una gioia duratura, una pienezza che assaporiamo a malapena, tra mille peripezie, ma che riusciamo almeno ad immaginare, per desiderarla.
La fede dov’è?
Oggi come allora, i corsi e ricorsi della storia si susseguono. Crediamo che Cristo è risorto? Crediamo che i morti risorgono? Oppure vediamo in lui “solo” un esempio da seguire, un brav’uomo, un maestro spirituale, una sorta di filosofo? Cristo è la primizia, colui che ci conduce al Padre, nella comunione intratrinitaria, dove l’amore non vede più fine. Il distacco provoca dolore, com’è doloroso separare i lembi di una ferita. Cristo non elimina questo. Ma schiude le porte della nostra vita all’eternità. Ci mostra che la morte non va verso il nulla, ma verso il Tutto.
Un figlio incapace?
il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre (Gv 5, 19)
Una prima lettura potrebbe essere fuorviante, consegnandoci una seconda persona della Santissima Trinità, imbelle, incapace, del tutto soggetta alla prima, in linea con il pensiero ariano, che vede, nel Figlio di Dio, il compimento delle promesse divine in una creatura, per quanto colma di grazia possa essere. Che non sia questo il senso è chiaro dal seguito, in cui specifica che “il Padre […] non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio”7: il potere giudiziario, specie nel mondo antico era il potere supremo. Se il Padre lo lascia al Figlio, ne consegue che il Figlio non ha minore dignità, ma vi è piena e totale collaborazione, nell’amore che li lega.
Come in uno specchio
Piuttosto, parlare in questi termini del rapporto Padre – Figlio è come dischiudere una porta, lasciata socchiusa, per lasciarci sbirciare nell’intimità della Trinità. Per poter scoprire che possiamo trovarne analogia, in famiglia. Un’esperienza che ci è vicina, è nel nostro bagaglio di ricordi.
Vale la pena venire al mondo?
Il capitolo quinto evoca quindi un’immagine, più che un concetto. Un’immagine che può essere trasferita nel quotidiano dalle parole di Franco Nembrini, che racconta di aver letto, nello sguardo interrogativo di un figlio, la domanda più profonda che potesse ricevere: vale (davvero) la pena venire al mondo? È qui che si gioca tutto. Siamo fatti per l’eternità. Perché c’è un Figlio che è passato “dalla morte alla vita”, per regalarci la vita eterna, in comunione col Padre. È una grazia. Un dono. Non ce lo meritiamo, non abbiamo fatto niente per riceverlo. Ci è offerto per un unico motivo: l’amore. Perché l’amore più autentico e fecondo è immeritato, è pura grazia. Ti raggiungere inatteso, dove sei, come sei. Ti raggiunge anche se cerchi di evitarlo, come acqua che irrora la terra, infiltrandosi in ogni pertugio lasciato incustodito. E, da lì, tenace, alimenta la tua sete di Eterno.
1 Es 3, 6
2 Cfr. Es 3, 7-8: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo»
3 Nm 11, 5
4 Es 3, 14
5 Gv 15, 5
6 E. MONTALE, Maestrale
7 Gv 5, 22
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