C’è una chiesa da preservare e un gregge da accudire: nessun dubbio veleggia su questo mandato. E la gerarchia dagli albori s’innalza proprio con questa missione. La periferia, dal canto suo, ha il diritto di proporre, spingere e aiutare nella continua ri-creazione di stili di pensiero e di azione adatti al contesto in cui si chiede di testimoniare il Vangelo. L’episodio di don Paolo Spoladore aiuta in una duplice riflessione. C’è un’ortodossia di magistero, di responsabilità e di agire che va tutelata: in questo senso i 1752 canoni del Codice di Diritto Canonico ci sono – come ricorda la Costituzione Apostolica Sacrae Disciplinae Leges del 1983 – per “creare ordine nella società ecclesiastica”. E da questo punto di vista gli organi competenti non mancano di certo per richiamare all’ordine, raddrizzare le strade, salvaguardare la fedeltà.
Ma c’è un altro versante sul quale ci si può confrontare liberamente, per cercare di dare una fisionomia a dei sacerdozi giudicati creativi oltre misura. Dopo gli scandali occorsi in America nel 2002, un sacerdote della Diocesi di Eyre – nel tentativo di capire il perchè di certe derive pericolose – s’aggrappò al linguaggio del marketing. Quando uno è insoddisfatto di un prodotto gli rimangono due scelte: o smette di acquistarlo rivolgendosi ad un prodotto analogo della concorrenza («l’uscita») o esprime la sua insoddisfazione alla direzione («la voce»). Nella Chiesa, dove la fedeltà alla direzione tende ad essere alta, succede lo stesso: ci si rivolge alla direzione nell’attesa di una correzione (l’opzione della voce). Ma se non arriverà risposta s’eserciterà l’opzione dell’uscita. Per John Beal la mancanza di risposte all’opzione della voce sta causando un allontanamento dei sacerdoti e il mostrarsi della Chiesa come una forma di monopolio pigro. Quando tutto scende dall’alto verso il basso (insegnamento, santificazione e governo) coloro che stanno in basso altro non devono fare che ricevere, amministrare e obbedire: dimenticando che anche alla gerarchia spetta il compito di imparare prima che di insegnare, di santificarsi prima che di santificare, di ascoltare prima di governare.
Oggi il dissenso e la figura dell’eretico, per una strana forma di interpretazione, appare fashion. Come tanti libri debbono il loro straripante successo editoriale ad una certa messa all’indice da parte delle autorità ecclesiastiche. Non si cerca di rendere il dissenso enciclica programmatica di nessun sacerdozio: si cerca solo di capire come si possano far sposare – senza rischi di adulterio o di dolorosissima convivenza – il carisma del singolo con l’istituzione della Chiesa. Convinti che uno scisma è pericoloso quando ci s’imbatte nelle conseguenze pratiche, ma lo è minimo altrettanto quando si cela nascosto sotto un’apparente ortodossia: e la storia ecclesiastica di questi mesi è un invito esplicito alla purificazione della memoria.
L’episodio di don Paolo – al di là degli aspetti giuridici che di dovere cercherà di tradurre – è l’ennesima conferma che un carisma forte (e anche i detrattori questo glielo devono riconoscere) con molta fatica s’aggancia al treno ufficiale della Chiesa. Il sogno è quello – per riprendere l’esempio – di usare la “voce” come desiderio di fedeltà. Sapendo che l’alternativa a volte rimane quella dell’ “uscita”: con la conseguenza che nessuna delle due parti ne esce vincitrice.
Rimane un gesto di grande umanità, nel frattempo: la delicatezza di evitare quel chiacchiericcio frivolo che a tutto concorre fuorchè alla costruzione di una Chiesa in cui strumenti diversi s’arrischino di suonare un’unica melodia. Tanto per restare in tema di musica.