Vattene!
«Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,1-3)
“Vattene”. Queste le prime parole rivolte ad Abramo, nel discorso che esprime le promesse che Dio gli rivolge. Un imperativo, dal sapore insindacabile. Andare via, lasciare ogni certezza, ogni possedimento, quella terra conquistata dai propri avi, in cui viveva in modo agiato, come qualcuno cui non manca nulla. Andarsene. Da una terra che dice di radici e di radicamento, che racconta di un legame di parentela e di un riconoscimento di sé.
Decisioni e recisioni
Ad Abramo è chiesto di rinunciare a tutto questo, per volgersi all’ignoto. Andare oltre ciò che gli è familiare, per costituire qualcosa di nuovo. Lo guida una promessa, i cui contorni, però, rimangono indefiniti, ancora tutti da delineare. Una benedizione attesa, un nome che sarebbe rimasto sulla bocca dei popoli, quale esempio.
Per raggiungere la promessa, però, Abramo ha bisogno di recidere, di eliminare dei legami, per aprirsi a nuove possibilità. Non è possibile rimanere eternamente informi. Bisogna con-formarsi alla propria realtà. Ciò richiede una decisione, che reclama, necessariamente, una o qualche recisione. “Perché porti più frutto”[1]: così la spiega Gesù, nel vangelo di Giovanni, tramite un’analogia botanica con la necessità di potatura della vita. Ciò che eccede, è di troppo, rallenta il passo: in definitiva, non è utile. Anche se, alle volte, può svolgere il ruolo degli oggetti di conforto dell’infanzia.
L’anagrafe di Dio
“Aveva settantacinque anni” (Gn 12,4). Questa l’età di Abramo quando la sua storia ri-inizia. Quando lascia ogni certezza, abbandona ogni possesso, lasciandosi il passato alle spalle. A settantacinque anni, acconsente alla proposta divinamente folle di considerare, a quell’età, più rilevante il futuro, proiettando tutte le proprie energie verso una terra ancora ignota, fidandosi di una parola che indicava una discendenza numerosa. Nonostante la sua età. Nonostante quella di sua moglie Sara. Nonostante fosse convinto che sua moglie fosse sterile.
“È tardi”. “Ormai”. “Sono fatto così”. Forse, ogni tanto, dovremmo rileggere queste pagine, questa storia di Abramo e, in filigrana, trovarvi la nostra. Perché, forse, l’anagrafe di Dio non corrisponde alla nostra. Per chi è eterno, il tempo è poco più di un accidente. Il tempo per ricominciare è sempre lo stesso. Adesso. Ogni “adesso” è una possibilità in cui cambiare, ricominciare, riprendere un cammino interrotto da una “caduta”, di qualunque tipo sia (voluta o non voluta, persino: causata da altri!).
Le “immagini” di Abramo e di Sara
Ambrogio, commentando la ricchezza descritta al capitolo 13, vede in Abramo figura delle tre diverse ricchezze del sapiente: nella sensazione (rappresentata dal bestiame), nella parola (visualizzato tramite l’argento posseduto), nella mente (raffigurata nell’oro)[2].
Non è del resto il primo a leggere l’Antico Testamento attraverso il nuovo e il precursore è proprio un autore canonico: san Paolo. Nell’epistola agli Ebrei (in cui si rivolge, quindi, a un pubblico preciso, con cui aveva, fino alla propria conversione, condiviso la stessa fede), mostra, in Giacobbe, Sara ed Abramo figure della fede in una promessa ancora incompiuta, che in Cristo vede, invece, il proprio compimento.
Cristo «senza cuore»?
Il capitolo 9 del Vangelo di Luca vede anch’esso al centro la tematica della sequela, quale ascolto della volontà di Dio. Fermarsi al senso letterale, ci costringerebbe ad una visione di Dio terribile e “senza cuore”: ciò, però sarebbe in contrasto con quella che ci trasmette non solo Cristo, che ce lo rivela papà, bensì anche con quanto ci rivela l’Antico Testamento, le cui viscere si commuovono di compassione[3].
Un entusiasmo da contenere
La conclusione del capitolo sembra realizzare un sommario di diverse storie di sequela. Non ne vediamo i volti, ma percepiamo i fremiti di quelle anime inquiete. La prima («Ti seguirò dovunque tu vada»[4]) pare ricalcare l’entusiasmo che ci è familiare nell’apostolo Piero e che Cristo sembra frenare, con un moto di realismo[5].
Un’asprezza difficile da comprendere
Gli altri due incontri paiono essere originati da una differenza fondamentale. La richiesta parte da Cristo. La dilazione, per motivi diversi (la sepoltura del padre[6] oppure il congedo dai familiari[7]). Le parole di Cristo suonano davvero quasi prive di umanità («Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio»[8]). Si può pensare che chi inviti all’amore per i nemici, invita a disprezzare a tal punto i vincoli di sangue?[9].
Il primato di Cristo
Rifuggendo una radicale interpretazione letterale, non rimane che riconoscere nell’asprezza di queste parole il medesimo rimando che troviamo nel libro della Genesi. Un richiamo a riconoscere il primato a Dio, nella nostra vita, che significa unificarne il rapporto nella nostra quotidianità, non relegarlo alla parentesi di un’oretta domenicale. Perché solo se l’edificazione del regno di Dio è impregnato della mia quotidiana fatica e la preghiera il mio respiro quotidiano, che dà senso alla fatica, allora posso camminare con Dio e “sfalciare il superfluo”.
Rif. V domenica dopo Pentecoste : Gn 11,31 – 12, 5; Eb 11, 1-16; Lc 9, 57 – 62
Sulla necessità di recidere (discernere) – don Fabio Rosini (estratto): Fonte immagine: theglobeandmail
[1] Gv 15, 2
[2] AMBROGIO, De Abraham, 5, 20
[3] Os 11, 8
[4] Lc 9,57
[5] «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58)
[6] Lc 9,59
[7] Lc 9, 61 – con una richiesta che richiama quella di Eliseo al profeta Elia: «Lasciami baciare mio padre e mia madre» (1Re 19, 20)
[8] Lc 9,60
[9] Come si domanda, del resto Ambrogio, a commento di Lc 12, 51: “Dovremo dunque pensare che proprio quel Signore che ha abbracciato in una sola raccomandazione sia il ri- spetto dovuto alla divinità̀ sia il dono della pietà, dicendo: Amerai il Signore Dio tuo e amerai il prossimo tuo (Lc 10,27), sia ora tanto cambiato, da abolire perfino i nomi di parentela, e da infrangere brutalmente il sentimento della pietà? ” (In Lucam, 7, 135)
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