Un giardiniere all’opera

Il secondo capitolo del libro della Genesi è il più antico racconto della Creazione. Rispetto al primo, le differenze più rilevanti che riscontriamo sono nella creazione dell’uomo e della donna, visti nella loro differente specificità.

Eppure, non è l’unica. Anche l’immagine di Dio proposta è differente. Se nel primo emerge, in modo particolare, il re ed il governatore, nel secondo, anteriore come composizione, emerge, risentendo dell’influsso della mitologia persiana, l’immagine di un Dio giardiniere: qualcuno che non compia solo un esercizio di potenza nel “chiamare all’esistenza”, ma soprattutto, eserciti una cura costante, quotidiana, attenta per far sì che dove non cresceva nulla, irrigato dai fiumi, crescesse un giardino rigoglioso.

Morte imprevista

«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (Gen 2,17).

Questa implicazione della morte, in relazione al divieto edenico, richiama un altro passo biblico:

Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale. (Sap 1,13-15)

Se Dio è colui che offre l’esistenza, l’eterno vivente che consente l’essere agli enti, come pensare che la morte sia costitutiva, nella creazione, ma sia subentrata in un secondo momento, come frutto proprio della disobbedienza di Adam ed Eva nell’Eden. C’è allora un pensiero che riflette questa ontologia, evidenziando la morte come un intruso dovuto all’invidia (di Satana).

Quella brutta bestia dell’invidia

In effetti, a ben pensarci, l’invidia è a capo di comportamenti negativi. Basti pensare alla passione per il gossip, che spesso nasconde una vena di superiorità, in confronto ai protagonisti delle nostre chiacchiere. A volte, si tratta anche di persone abbienti o sotto i riflettori. Eppure, come un fiume carsico, solo con l’invidia è spiegabile quel vago senso di compiacimento, nel raccontare disavventure altrui.

Un nottambulo in cerca di verità

Il capitolo terzo del Quarto Vangelo ci offre un brano che è quasi paradossale: parla della metafora di luce e buio come connotati rispetto al bene e al male[1] proprio a Nicodemo, quel tale che – abbiamo visto pochi versetti prima[2] – aveva l’abitudine di approfittare del favore delle tenebre, per “pagare visita” a Cristo. Nicodemo era, secondo la tradizione, uno dei dottori della legge e un membro del sinedrio.  Non è difficile, quindi, immaginare, cosa significasse, per uno come lui, essere discepolo di Cristo. Aderire in modo profondo e “vistoso” non poteva essere indolore. La presenza stessa di una figura come Nicodemo, nei vangeli, rappresenta la testimonianza più significativa del livello di penetrazione della predicazione di Cristo: questa non aveva solo solleticato il desiderio di rivalsa di qualche compagine zelota, ma era giunta fino ai piani alti del livello decisionale del potere politico-religioso della sua epoca.

Luce di Cristo

La luce che non è accolta “dai suoi” riporta alla memoria il celebre prologo giovanneo, mantenendo il centro focale sulla persona stessa di Gesù Cristo, capace di illuminare le opere di ciascuno: vera luce, capace di chiarificare i moti del cuore, per cui, talvolta, anche un’azione svolta nel buio, in realtà, richiedeva la “luce del sole”.


VANGELO Gv 3, 16-21

✠ Lettura del Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo. Il Signore Gesù disse a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Letture festive ambrosiane, nella III Domenica dopo Pentecoste: Gen 2, 4b-17; Rm 5, 12-17; Gv 3,16-21

Fonte immagine: Pexels


[1] Ricordando “le due vie”, presenti nel Salmo 1 e riprese, in seguito, dalla Didachè, una che conduce alla morte, l’altra alla vita.  

[2] Gv 1,8

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