1° Maggio, festa del lavoro - Rigger al lavoro, su americana

Festa e retorica

Il primo maggio, festa del lavoro, è una di quelle celebrazioni imbottite di retorica fino alla nausea. I grandi palcoscenici diventano motivo per bulimiche scorpacciate di parole, che, come spesso accade, rischiano di rivelarsi una vuota esposizione diu sofismi, lontana, però, dalla realtà quotidiana e dagli effettivi problemi che affliggono i lavoratori del nostro tempo. Precarietà, disoccupazione, salari inadeguati al costo della vita sono solo alcuni dei problemi che il mondo del lavoro sa di dover affrontare. Non ultimo, e, tanto meno, di minore importanza, è il tema della sicurezza sul lavoro, tornato alla ribalta, in questi mesi, complici alcuni incidenti sul lavoro occorsi durante il tempo impiegato da studenti delle scuole superiori in progetti di alternanza scuola-lavoro1.

Dietro le quinte di un concerto

Il primo maggio, per molti, rimanda, senza passare dal via, al “concertone”. Musica, spettacolo, divertimento, aggregazione e condivisione. All’aperto o al chiuso, in qualche luogo ameno immerso nella natura, in un edificio storico di elevato valore artistico oppure nel più scalcagnato dei bar di periferia: ogni concerto è un brulichio di lavoro, visto e non visto, per garantire, a pochi o a molti, il miglior spettacolo possibile. Perché, per tanti, festeggiare il primo maggio equivale a lavorare, tra bauli, mixer ed americane, per allestire ciò che farà da supporto a chi salirà sul palco, parlando, cantando, ballando o recitando per intrattenere, divertire o far riflettere.
Come non pensare, però, quando questo lavoro non è apprezzato, valorizzato, ma – anche protetto – nelle persone che lo compiono?

Matteo Armellini: una morte che ci chiama a riflettere

Un esempio a cui non si può non pensare è quello del rigger Matteo Armellini, morto nel 2012, durante l’allestimento del palco di Laura Pausini. Finalmente, dopo nove anni, nel 2021 , le colpe sono state accertate. Ma si può dire – davvero – “giustizia è fatta”, quando un incidente sul lavora stronca la vita di un giovane, ancora nel pieno delle forze e del vigore?

Soprattutto, visto che, spesso, i motivi della mancanza di sicurezza sono da ricercare nella fretta, nella disattenzione, nell’approssimazione, che, in ultima analisi non altro che declinazioni concrete del desiderio spasmodico di guadagnare fino all’ultimo centesimo, se serve, a discapito della sicurezza dei lavoratori, cui spesso non è garantito l’opportuno o per i quali è disincentivato l’ultizzo di congrui dispositivi di sicurezza (fondamentali, in particolar modo quando si lavora in altezza), nonostante l’obbligo di indossarli.

La dignità del lavoro: un problema (purtroppo) ancora attuale

Perché, dunque, la sicurezza, nbonostante gli studi al riguardo e le leggi emanate, è ancora tanto sottovaluta?

Dipende dai punti di vista.
Per chi organizza, tutti questi aspetti sono spesso visti solo come una perdita di tempo (preziosissimo, in un mondo in cui l’imprevisto è all’ordine del giorno, da un repentino cambio meteo che rende impossibile l’evento ad un ingorgo stradale che costringe a ritardi inenarrabili, ritardando tutta la macchina organizzativa) e di risorse (che possono, con maggior profitto, essere più efficacemente utilizzate in altro).
Chi lavora dovrebbe essere il primo interessato alla propria salute ed insistere, se necessario, affinché siano rispettare le basi norme di sicurezza: non tanto per il rischio (in verità, abbastanza remoto, di un controllo con relativa multa), bensì proprio perché si alza il rischio corso da chi, lavorando in altezza, mette a rischio la propria vita, nel caso di una distrazione anche banale in un piccolo momento che, a terra, risulterebbe del tutto innocuo e privo di rischi. Tuttavia, proprio per iltimore di perdere contratti quasi sempre a progetto o a tempo determinato, preferisce non rischiare una certezza immediata, finendo, però, con il barattarla con un bene inestimabile e non mutuabile, com’è la vita umana.

Logica del profitto e amore per la vita

In realtà, entrambi i punti richiamano un unico neo: il profitto, come unico obiettivo, se serve, a discapito della vita, propria ed altrui. Un paradosso. Perché, se è vero che i soldi servono – quindi: guaadagnarli tramite il lavoro – affinché noi stessi ed i nostri cari possano avere il necessario per vivere, è anche vero, che, senza vita, non c’è alcun guadagno e l’’unica speranza rimane nell’eventuale risarcimento, che – qualora avvenga – non risarcirà mai il tempo stroncato da una fine prematura, sottratto a chi più amiamo.

Dalle labbra di Thorin, che si rivolge, in punta di morte a Bilbo, Tolkien ci ricorda dolcemente come, nelle piccole cose, possa risiedere la grandezza di una persona:

«In te c’è più di quanto non sappia, figlio dell’Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto!»2

Dottrina sociale della chiesa

Cosa dice la chiesa, al riguardo? Dalla Rerum Novarum di Leone XIII ai giorni nostri, il magistero si è espresso in diverse occasioni. E possiamo dire che non si allontana poi molto dalle parole di Thorin (o viceversa?):

«Il lavoro è [un aspetto] perenne e fondamentale, sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza. Perché sorgono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma anche timori e minacce connesse con questa fondamentale dimensione dell’umano esistere, con la quale la vita dell’uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta la costante misura dell’umana fatica, della sofferenza e anche del danno e dell’ingiustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all’interno delle singole Nazioni e sul piano internazionale. Se è vero che l’uomo si nutre col pane del lavoro delle sue mani, e cioè non solo di quel pane quotidiano col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane della scienza e del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una verità perenne che egli si nutre di questo pane col sudore del volto, cioè non solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante tensioni, conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita delle singole società ed anche di tutta l’umanità»3

Il valore etico del lavoro

Più avanti, sottolinea anche come, attraverso la fatica, il lavoro rappresenta «un bene dell’uomo», perché, «mediante [esso], l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”».

Per questo motivo, la laboriosità è una virtù, perché «la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo» Tuttavia, va notato come sia giusta la preoccupazione «affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità», anche perché va considerato che «è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro»4. Tutto ciò ci orienta a mettere al centro l’uomo, creatura da sempre amata da Dio, affinché diventi protagonista del lavoro che svolge e, tramite esso, possa esprimere ed offrire alla società il meglio di sé. Senza dimenticare, però, che il lavoro non può essere, per l’uomo, l’assoluto di sé.

Papa Francesco: non solo lavoro!

Al riguardo, c’è un messaggio di papa Francesco, che, nonostante sia datato 22 maggio 2017, conserva ancora la freschezza di quelle parole che non avvertono lo scorrere del tempo, perché si rivolgono agli aspetti più profondi (ed universali) del cuore umano:

Una persona che lavora dovrebbe avere anche il tempo per ritemprarsi, stare con la famiglia, divertirsi, leggere, ascoltare musica, praticare uno sport. Quando un’attività non lascia spazio a uno svago salutare, a un riposo riparatore, allora diventa una schiavitù

Si tratta di un promemoria prezioso: perché il lavoro sia un ambito in cui l’umano possa fiorire, deve lasciare spazio anche ad altro, nella vita. È opportuno vi possa essere spazio per la curiosità, la creatività, le relazioni umane, che concorrone ad accrescere il respiro del nostro spirito. Perché, anime incarnate, non possiamo respirare a pieni polmoni la pienezza della vita, se da essa eliminiamo una parte importante.


Fonte immagine: petzl.com
Riferimenti: Blastingnews


1 Luce

2 J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, Adelphi, 1997, p. 324

3 Giovanni Paolo II, Laborem exercens (14 settembre 1981), n. 1

4 Giovanni Paolo II, Laborem exercens (14 settembre 1981), n. 9

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