Sono rientrato in galera dopo la lavanda dei piedi fatta al mattino: avevo dei colloqui personali fissati per il pomeriggio del Giovedì Santo. La lavanda, per logiche interne, la si celebra al mattino, come tutti gli altri riti della Settimana Santa. Prima di salire nelle sezioni per incontrare qualche nostro “Barabba”, come al solito passo per la chiesa: è quella, per noi, il campo base. La sacristia, poi, è la nostra portineria, il nostro front-office, lo sgabuzzino dove c’è di tutto. Dove sono appuntati i nomi di coloro che, per svariati motivi, chiedono d’essere ascoltati, anche solo incontrati per una parola da condividere. La chiesa, quando rientro, è ancora come l’abbiamo lasciata dopo la celebrazione del mattino: i foglietti sciupati sui banchi, le sedie scomposte, i libretti dei canti tutti da risistemare. Ci sono ancora gli arnesi della lavanda: sull’altare c’è la brocca con dell’acqua dentro, il catino con l’acqua sporca. Poi l’asciugamano sgualcito sopra l’asciugatoio col quale mi sono cinto i fianchi. Abbiamo lasciato lì tutto, con la promessa di ritrovarci la mattina dopo a preparare la chiesa per i riti del Venerdì. L’asciugamano accanto al catino e alla brocca, è una sorta di “natura morta”.

Il cigolìo della porta mi annuncia una presenza: “Immaginavo saresti tornato, ho visto che ti sei scordato il giubbino” mi dice, facendomi capire che, in quanto ad agguati, sono ancora lungi dal non lasciare traccia. Siamo pur sempre in galera: questo non sarà mai un collegio di novizie: manco mi ero accorto di non avere addosso il giubbino! Quando rientro in sacristia per prenderlo, la contraerea è già in fase di decollo avanzato: “Scusa se mi permetto – mi dice con l’accento foresto che tradisce la sua provenienza dall’Est europeo – ma è da stamattina che voglio fare una cosa. Un po’ per la vergogna, un po’ perchè non sono stato prontissimo, non sono riuscito a farla a messa. Così ho aspettato che rientrassi” mi spiega. Il che cosa debba fare, me lo dice lui in persona: “Siediti, per favore!” L’uomo ha i lineamenti duri, gli zigomi parlano da sé: ha battuto la società come fosse un caco e la società lo ha riempito di anni di galera da fare tremare il calendario. Mi siedo, lo guardo e, ingenuo rispetto a lui e ai suoi fratelli, non fiuto minimamente la tempesta ch’è nell’aria. “Puoi toglierti la scarpa e il calzino, per favore?” dice. Lo guardo, cerco d’indovinare l’intenzione, spremo la mia fantasia e vado addirittura a sfidare le logiche del Vangelo. Lui, però, sta oltre: “Che fai, Vladislav?” gli dico. Mi fa il gesto di stare zitto. La perentorietà con cui me lo fa capire, m’impedisce di controbattere: in caso d’incidente, con le mani non potrei competere con questa gente cresciuta a pugni e schiaffi. Aspetta che mi tolga la scarpa e il calzino, poi si avvicina all’altare e, senza nemmeno indossare l’asciugatoio, prende brocca, catino e asciugamano e mi si inginocchia davanti.

“Che stai facendo, Vladislav?” gli ridico.

Tace: è già in fase d’operazione.

Sento l’acqua bagnarmi i piedi, avverto l’asciugamano che me li accarezza, sento le sue labbra che baciano il mio piede. In quest’attimo per un ribaltamento di prospettive liturgiche, sono Cristo: Vladislav, in quest’istante, è Giuda. È uno choc quello che realizzo: “Volevo farlo stamattina ma non sono riuscito. Volevo ricambiare il gesto che tu hai fatto a me. Tutto qui, scusami”. Mi abbraccia come ci si abbraccia con chi si ha condiviso un momento irripetibile. “Oggi, a messa, mentre mi hai lavato i piedi senza avvisarmi, ho sentito una sensazione strana: che davvero ci fosse Gesù davanti a me”. Questa mi mancava per sentire il peso completo della mia vergogna d’uomo: io, per viltà, sono Giuda, non Cristo. Eppure Vladislav, in me, è riuscito ad intravedere Cristo. Poi ha poggiato gli arnesi del lavaggio sull’altare, mi ha salutato, se n’è tornato su, nella sua cella. Dopo aver baciato la statua di Maria.

Per un’ora sono rimasto seduto lì, tramortito, stravaccato sul banco: senza la scarpa e il calzino, con il brivido di quell’acqua addosso. «(Marco) quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7). Quella mattina, entrando in carcere, avevo giusto tirato le somme della mia Quaresima: “La peggiore di tutte quelle vissute fino a quest’anno” mi sono rinfacciato.

Sono sempre troppo prevenuto con Dio.

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