Il Signore degli Eserciti
In questo periodo, purtroppo, funestato dagli strepiti di guerra alle porte di casa nostra, sembra fuori luogo invitare a prendere le armi. La prima lettura liturgica (Es 14, 15-31) ci rimanda l’immagine del Signore degli eserciti. Il popolo è in marcia. E quando diciamo popolo, non stiamo dicendo: battaglione, ma proprio “popolo”. Il che significa: uomini, donne, bambini, bestiame e masserizie. Stiamo dicendo: una massa informe e recalcitrante, che si muove, lentamente e scompostamente e non riesce a passare inosservata. Dio si pone tra quest’entità ed un’altra: un vero esercito, compatto, organizzato, addestrato a combattere, com’è la compagine egiziana.
In mezzo, in modo diverso
Dio si pone tra i due schieramenti, ma non ha lo stesso significato per entrambi, non interpreta lo stesso ruolo:
«La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte» (Es 14, 20)
È singolare, questo aspetto. La nube era una. Eppure, era completamente diversa. Per gli uni, luce e per gli altri, tenebra; per gli uni riferimento, mentre, per gli altri, impedimento; per gli uni un supporto ed un incoraggiamento, mentre, per gli altri, motivo di frustrazione e confusione.
Lo stesso motivo della divergenza si ripropone, per il Mar Rosso, qualche versetto oltre:
Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. (Es 14, 28-29)
Il nostro sguardo sulle difficoltà
Anche noi come il popolo nel deserto. Molto spesso, le cose non cambiano. Siamo noi che cambiano, nel nostro modo di guardarle, di porvi attenzione. Così, una stessa immagine, uno stessa nube, uno stesso mar Rosso può essere luce o tenebra, protezione od ostacolo, garanzia o impedimento. È l’uno o è l’altro? Talvolta, può essere ambedue le cose e il discrimine risiede non nella realtà che noi guardiamo, bensì nello sguardo che noi posiamo sulla realtà, per cui possiamo vivere una stessa situazione come una possibilità oppure una crisi, come un motivo per interrogarci e conoscerci meglio oppure come un motivo per piangerci addosso e pensare che il mondo intero ordisca contro di noi.
Non solo “con noi”, ma “per noi”
A volte, ci crogioliamo nell’idea che il Signore stia dalla nostra parte, come era scritto sulle fibbie delle cinture dell’esercito tedesco, durante la Seconda Guerra Mondiale: “Gott mit uns”. La Scrittura ci avverte che avverte che quest’ottica non è sbagliata, bensì riduttiva ed incompleta, perché il Signore non si accontenta solo di combattere insieme. Va oltre. Gli basta la nostra consapevole partecipazione. Dove noi non arriviamo, arriverà lui, come avverte il salmo:
«Il Signore completerà per me l’opera sua» (Sal 138)
Attenzione ad un dettaglio importante: non fa le cose al posto nostro. Non dice questo. Ci chiede la collaborazione, vuole il nostro contribuito ed apporto. Lo esige. Ma non intende “schiacciarci” con richieste eccessive. Sa che il disegno da realizzare è Suo. Non è alla nostra portata. Ci dà in mano un pennarello, vuole che iniziamo a disegnare. Qualche contorno sarà impreciso, ci saranno sbavature. Non importa. Completerà lui. Ma non al posto nostro. Solo per incanalare al meglio le forze che noi disperdiamo lungo la strada.
La battaglia giusta
Siamo, talvolta, tentati di “zuccherare” anche troppo la Parola di Dio. Con la scusa che la pace è un bene indispensabile, a cui tutti siamo chiamati a concorrere, finisce che non si parla più di battaglia o combattimento spirituale. Invece, è di fondamentale importanza, per non soccombere alla tentazione. Quanto meno, per essere consapevoli di doverla affrontare.
Il buon combattimento o la superstizione
Come agli Israeliti, anche a noi è chiesto un guado, trovando il punto d’equilibrio tra due poli che ci portano, invece, fuoristrada. Da una parte, un motivo (ragionevole) per cui guardare con sospetto l’insistenza sulla “buona battaglia” che ricorda un po’ il tenore di Evagrio Pontico è quello di salvaguardare il primato della grazia sul nostro merito personale, per scongiurare il rischio di un latente pelagianesimo, per cui la redenzione di Cristo non è che un debole corollario, a coronamento dei nostri lodevoli, con cui poter raggiungere la virtù. Dall’altra, però, serpeggia una sorta di superstizione nei confronti del ruolo della fede: l’intima presunzione [1] che, se abbiamo fede, noi ci meritiamo che non ci accada nulla di male, che siamo preservati da qualunque esperienza negativa, perché,, se queste accadono, è perché hanno la funzione di punire i malvagi.
Il nemico in agguato
La Scrittura ci avverte che sbagliamo completamente rotta e che, piuttosto, è vero il contrario:
«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni.» (Sir 2, 1-3)[2]
Non è la tranquillità la prospettiva del santo. Ma la battaglia. Se la nostra vita va liscia come l’olio, quindi, forse dobbiamo domandarci se non ci siamo “seduti”. Magari non stiamo facendo nulla di male, ci mancherebbe. Ma per così poco, Satana non si scomoda. È per lui molto più preoccupante quando finalmente iniziamo a indirizzare la nostra volontà secondo quella di Dio. Per questo, più importante ancora è il proseguimento. Ci potranno essere tentazioni e anche fallimenti. Non è per questo che è conveniente allontanarsi da Dio. Si potrebbe pensare: “Fallisco in questo, sono un pessimo cristiano, se vado a Messa sono un ipocrita”. Non andarci non migliorerà le cose.
Il deserto che fiorisce
Osea porta sua moglie nel deserto per proporle un nuovo fidanzamento, per sedurla, dopo l’ennesimo tradimento, non come premio per la fedeltà di un fidanzamento casto[3]. È proprio quando, pregando, “non sentiamo nulla”, che dobbiamo moltiplicare il tempo della preghiera. È nel deserto che sperimentiamo la bellezza della gratuità: come un fiore che sboccia nel deserto di un’apparente desolazione, per attestare che la bellezza non attende lo scrosciare di un applauso per mostrarsi, ma solo uno sguardo capace di scorgerla.
Rif. Prima lettura festiva ambrosiana, nella V Domenica di Quaresima, anno A, detta “Domenica di Lazzaro” (Es 14, 15-31)
Immagine fiore: Pixnio
Immagine battaglia: La battaglia di Marciano in val di Chiana, Giorgio Vasari e aiuti
[1] Cfr. Lc 18, 9-14
[2] Vedi anche Gn 4, 7 che mostra il male “accovacciato alla porta”: in attesa, come in agguato, pronto a saltare addosso (“come un leone ruggente”, vedi 1Pt 5,8-9, lettura breve della compieta del martedì)
[3] Os 2,16
Una risposta
Moltiplicare la preghiera, proprio quando non sentiamo nulla, pregando.