La Parola di Dio con cui ci confrontiamo, in quest’occasione, ha come nucleo fondamentale il rapporto con le cose, con i beni. Che si presentano, anzitutto, quale dono, ricevuto senz’alcun merito, ma che – nonostante ciò – richiede un tale rispetto da esigere che non vi sia alcuno spreco.
Ogni dono di Dio, anche se gratuito – proprio perché gratuito! – esige di essere utilizzato fino all’ultima goccia, fino all’ultima briciola: senza sprechi, senz’avanzi. Di più: ci consegna uno stile, che è un invito ad una gratuità senza calcolo, generosa fino ad essere controproducente, in una logica sovr-umanamente divina.
Senza ingordigia
Nella Prima lettura, dal libro dell’Esodo, siamo nel deserto, insieme con l’insofferenza degli Israeliti, che, lontani da quello che conosco iniziano a dubitare che lasciare l’Egitto per una nuova avventura sia stato una buona idea. Se, prima, masticavano amaro per l’oppressione egiziana, ora rimpiangono, invece, la sicurezza di cibo e sostentamento. A fronte di uno stomaco che brontola (che denota un senso di disagio), del cielo stellato (affascinante, ma sinonimo di incertezza), il prezzo della libertà pare eccessivo e il rimpianto si fa cocente. Dimentichi della sofferenza e delle angherie patite, nell’immaginario collettivo (dalla memoria corta), l’Egitto, secondo una forma di riduzionismo, è contenuto nell’immagine di una pentola fumante di carne, con pane “a sazietà”. Dovendo scegliere, perché non morire satolli, esausti di cibo, invece che, trafeli, tra mille peripezie, in fuga attraverso un deserto inospitale e – soprattutto – sconosciuto?
Ma Dio non inganna il popolo, non lo mette alla prova oltre le sue forze. Ascolta le lamentele e interviene in soccorso, mandando la manna. Non è secondaria, tuttavia, la modalità con cui prenderne: ognuno è chiamato a rifornirsene «secondo quanto ciascuno poteva mangiarne». Il risultato è sorprendente: «colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne» (Es 16,18). La spiegazione risiede nella seconda parte della frase, naturalmente, ma la sorpresa non è minore, perché la condizione di angoscia esistenziale nell’uomo, potremmo dire che è atavica, per cui l’invito evangelico che “a ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6, 34) risulta difficile da accogliere, per la necessità di avere garanzie sul futuro.
In cerca di giustizia
La seconda lettera ai Corinzi fa riferimento, più che al cibo, alle sostanze. All’interno delle vicende di una chiesa nascente, tra difficoltà ed entusiasmi, ci troviamo innanzi al grande tema dell’uguaglianza, a lungo dibattuto nei secoli. L’occasione passa, in realtà, da quotidianità spicciola, cioè una raccolta fondi (adesso, la chiameremmo crowdfunding), in favore della comunità di Gerusalemme. Il motivo di fondo è la gratitudine: è a Gerusalemme che nasce la prima comunità, in seguito al primo annuncio e non senza difficoltà e tributo in sangue da versare. Nell’unione in Cristo, quindi è impossibile non guardare con gratitudine a quella località, che può – a buon titolo – essere ritenuta fondativa per i seguaci del Nazareno.
C’è un’idea di fondo che soggiace alla carità. Non si tratta di percentuale, ma di generosa disponibilità, sintetizzata nell’espressione:
Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza (2Cor 8, 13).
Quando si tratta di donare, il rischio del malinteso è sempre grande. Nessuno dovrebbe sentirsi a disagio, nel dono: né chi offre, né chi riceve. Né si dovrebbe provare rimorso, per essersi messi in difficoltà da soli. È anche da questo che l’Apostolo mette in guardia.
Al contempo, però, c’è una sensibilità che chiama a guardare l’altro, insieme con me. Mai senza l’altro è possibile trovare la felicità. Non posso guardare a me, pensando di bastare a me, se intorno a me regna la desertificazione e l’aridità. Siamo uno, nel Cristo totale. Io e te: io con te, mai senza di te.
A questo richiama Basilio, quando esorta:
Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato;
la tunica appesa al vostro armadio è la tunica di colui che è nudo;
le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo;
il denaro che voi tenete nascosto è il denaro del povero;
le opere di carità che voi non compite sono altrettante ingiustizie che voi compite[1].
Agape di gratuità
«Date loro voi stessi da mangiare» (Lc 9,13)
L’ordine messianico più ambiguo di tutto il Vangelo è contenuto in questa frase. Il contesto racconta di quotidianità. Cristo che cammina, cerca un posto in disparte per la preghiera, ma è raggiunto dalle folle e non le respinge. Di fronte a questa ricerca, Cristo non si sottrae, anche se, nella sua libertà, potrebbe. Offre Parola e guarigione. Quello che, oggi, continua a compiere, tramite la Chiesa. Il Pane spezzato per molti, la Parola di Vita offerta, la guarigione: non possiamo forse ritrovare l’azione della Chiesa che, tramite le sue molte membra, amministra i sacramenti, spiega le Scritture, offre preghiere di intercessione per coloro che le richiedono e per coloro che ne hanno necessità. L’ambiguità del pressante invito di Cristo è sempre qualcosa di de-nudante.
Un Dio in-carnato
Nell’accezione più immediata è una semplice sollecitazione a mettersi all’opera per sfamare chi ha fame, al massimo notando una sfumatura di stupore per la necessità che ciò debba essere sollecitato, quasi a dire: “Vi siete resi conto che hanno fame; forse anche a voi brontola lo stomaco? Eppure, quello che mi suggerite è di rimandarli a casa, quasi che il loro stomaco non sia questione che vi tocchi!”. La situazione che abbiamo innanzi è una moltitudine affamata. I discepoli non pensano a risolverla: vedono un problema e vogliono scantonare.
Un Dio che invita a in-carnarci
Ecco, quindi il paradosso, nella seconda lettura possibile. L’invito non è (solo) a trovare cibo per una moltitudine, una volta constatatone lo stomaco brontolante. Va oltre. Paradossalmente, il Dio-fattosi-uomo, ci invita a rientrare nel nostro essere uomini, a sentirci uomini-tra-gli-uomini, condividendone gli affanni. Se l’idea dei discepoli è di annunziare il “rompete le righe”, perché ognuno si organizzi per conto proprio, Gesù la vede in modo ben diverso. Non solo si interessa dell’integrità dell’uomo, che comprende anche stomaco e visceri, insieme con desideri, aspettative, angosce, aspirazioni, timori: intende condividere l’essere uomini, invitando anche noi a fare lo stesso. Qual è il cibo che suggerisce? È in quel “voi stessi” che è contenuta la totalità dell’oblazione, che nella Passione trova la sua realizzazione storica, ma nell’intera economia di salvezza la ragion d’essere di un’umiliazione che può spiegarsi solo in una sovrabbondanza d’amore.
La mormorazione e la gratuità
L’uomo ha bisogno di pane, amore e libertà. Ha bisogno corporei, che non possono essere dimenticati. Ha bisogni affettivi, che non sono meno importanti. Eppure, non basta ancora: c’è un’eco di eternità, che chiede di essere ascoltata.
Dio ascolta l’invocazione di chi ha fame, ma al contempo ci esorta a impegnarci in prima persona. Eppure, un pane senza carità non sfama veramente. Non sfama la vera fame dell’uomo che supplica ascolto, comprensione, empatia.
In un mondo che induce a pensare che ogni cosa abbia un prezzo, Dio offre una gratuità così preziosa, che chiede di andare esaurita, di non avanzare nulla, di dare fondo alle scorte, senza la preoccupazione che a qualcun altro manchi.
C’è un tutto, che, anche se poco, nelle mani di Dio, non solo è sufficiente: diventa sovrabbondanza di grazia, che, come pioggia, irriga ogni cosa, infiltrandosi in ogni anfratto lasciato disponibile alla potenza di una Parola, che, fattasi carne, offre la sua sempiterna efficacia a chi non si sottrae.
Cfr. letture festive ambrosiane, nella III domenica dopo l’Epifania: Es 16, 2-7a.13b-18; 2Cor 8,7-15; Lc 9, 10b-17
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[1] San Basilio Magno, Omelia VI in Luca, XII, 18: PG XXXI, col. 275