Battesimo nel fiume Giordano, immersione

Un episodio insolito

Da quando venne, si abbassò. Si inabissò. Si immerse, nel profondo. Fino a toccare il fondo.
Per poi emergere.
Un Dio senza ritegno che, presa la nostra carne, la portò a spasso per anni, nella silenziosa e laboriosa quiete di Nazareth, prima di decidere che il tempo fosse compiuto e che la predicazione potesse avere inizio.
Un giorno, però, lasciata la Galilea e raggiunto il Giordano, troviamo un Cristo in fila, con gli altri poveri-cristi. Senza raccomandazioni. Come fosse un povero-cristo anche lui.
Al cugino-profeta, però, non può sfuggire la sua presenza e prova a contrastare la follia del Dio-innamorato:

«Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3, 14)

Il Cristo non prova neppure a dilungarsi in spiegazioni teologiche:

«Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,15)

Si appiglia alla sapienza biblica, che richiama l’Ecclesiaste, per far emergere una convenienza  in quella che non è altro che una scelta di grazia. Una delle tante, nel corso della storia d’amore tra Dio e l’uomo.
Possiamo a malapena immagine lo stupore del rude asceta, figlio di Zaccaria che, con le gambe a mollo nel Giordano, può vedere i cieli aprirsi e lo Spirito di Dio, come una colomba.
Qualcuno avrà pensato a una suggestione, il Battista si è forse domandato se non avesse ecceduto col digiuno.

Da stranieri a concittadini dei santi

«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2, 19-20)

Un Dio che s’immerge nel mondo, nella storia, nella carne umana, nel Giordano. È un Dio che si carica l’uomo sulle spalle, per mostrargli le braccia del Padre.

Non avviene – solo – sul Golgota. Avviene nella mangiatoia, si ripete al Giordano.
Assume la nostra carne, nascendo da Maria. S’immerge nella nostra umanità.

S’immerge divino, riemerge umano. Perché, con i nostri passi, dovrà imparare a calcare la polvere della Palestina. Con i nostri peccati sulle spalle, salire il monte fuori di Gerusalemme.
Dall’emersione dal Giordano, nulla, di nostro, gli sarà più estraneo. Scandaglierà abissi e anfratti dell’animo umano, scrutando occhi di donna e lacrime fanciulle, fatica d’uomo e dolore atavico.

Perché Dio lo era dall’eternità, ma doveva imparare a vestire quella pelle dall’uomo dall’interno, non più osservarla dall’alto dei Cieli.

Vicini e lontani

Vicini e lontani. Lo si dice dei parenti o degli amici. Il discrimine risiede, il più delle volte, nelle coordinate geografiche: vicini sono quelli più veloci da raggiungere, perché la distanza, nello spazio, è inferiore; lontani sono coloro che, al contrario, richiedono un maggiore dispendio di energie, tempo ed impegno, per colmare la distanza che ci separa da loro. Per i parenti, in verità, spesso tendiamo a vedere la distanza sulla base dei gradi, discorsi che si rispolverano, in modo particolare, durante le feste, con i tradizionali “raduni” familiari, che chiamano a raccolta, in modo più o meno indolore, compagini variopinte, di uomini e di donne, intorno ad una tavola imbandita, alla ricerca di qualche ora di serenità.
Non è l’unico modo, tuttavia, con cui è possibile valutare la distanza. Anche all’interno di una stessa stanza, anche quando i gradi di parentela dicono prossimità, ci sono distanze che paiono siderali, muri che paiono invalicabili, separazioni invisibili eppure pertinaci, che ci tengono “l’un contro l’altro armato”[1]. In una tensione latente, sottile, palpabile, presente nell’aria in modo ostinato, come l’odore della verdura in pastella.  
Sono questi i motivi, per cui, per molti, le feste ormai concluse sono luogo, fisico e spirituale, dove a regnare è l’ipocrisia, per cui l’unico auspicio è che durino poco, cosicché il supplizio possa presto concludersi.

Il sangue di Cristo e la pace

C’è un sangue che ci unisce e ci rende fratelli, non di sangue, ma in modo ancora più profondo, nel quale è possibile annegare ogni nostra inimicizia ed ostilità. È il sangue di Cristo, “nostra pace” (Ef 2,14). Una pace vera, non raffazzonata; una pace autentica, non una pace armata, con il fucile spianato, pronto a sparare di fronte ad un altro, che comunque, anche se non è un nemico, rimane – quanto meno – un pericolo, un rischio, un azzardo. Qualcuno, almeno, da cui guardarsi, perché non si sa mai …perché, se fidarsi è bene, rimane pur vero che non fidarsi è sempre meglio.
Un corpo di carne, martoriato; una croce conficcata nel terreno. Questo quanto rimane, dopo il supplizio di Cristo, se guardiamo alla concretezza. Solo questo?

Il tempio di Dio

«In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2, 21-22)

Non c’è azione di Dio che non veda la presenza di tutta la Trinità, sebbene alcune missioni siano specifiche solo di un’ipostasi.
Il Battesimo nel Giordano, in particolare, rimane icona dell’incontro tra Cielo e Terra. Un incontro che, però, non si cristallizza in un’immagine, ma richiede l’attualizzazione quotidiana, nella nostra vita, perché, con il nostro battesimo, anche noi diventiamo «figli nel Figlio», per « diventare un solo corpo nel “primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29)»[2].


Rif. letture festive ambrosiane, nella festa del Battesimo di Gesù: Is 55, 4-7; Ef 2, 13-22; Matteo 3, 13-17
Fonte immagine: Corriere



[1] A. Manzoni, Il cinque maggio

[2] Congregazione per la Dottrina della Fede, Placuit Deo, 2018, n. 4

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