scarpe1I colori devono sempre essere chiari, in un arcobaleno tutto mio che spazia dal giallo all’arancione con larga presenza di bianco: perché quando gli occhi s’abbassano devono ricaricarsi alla loro luce. Le scarpe o della Mizuno o della Saucony: le prime perché mi forniscono la protezione negli allenamenti, le seconde per la leggerezza nell’ultima settimana e in gara. In quindici settimane d’allenamento ne ho distrutte quattro, più quella di domenica: faranno un viaggio-premio in lavatrice e per un anno ci camminerò, quando la tonaca me lo permetterà. Nell’archivio del mio Garmin 305 – l’orologio dei maratoneti – sono registrati oltre 1600 km per un consumo superiore alle 115mila calorie in 105 ore di corsa: ragione per cui a tavola nulla si sottrae alla libera concessione. Un piccolo occhio di riguardo all’abuso di dolci – quando manca, lo zucchero si fa sentire – ma quantità industriali di pastasciutta, di carne e di verdure. Con le mie immancabili arance in tutte le salse: spremute, a spicchi, intere, con la buccia ma sempre rigorosamente fredde. Degli alcolici non provo nostalgia o tentazione: il solo odore o profumo m’inebetisce la mente.
scarpeMeglio l’acqua fresca delle mie montagne o delle gradite fontanelle nascoste nel verde di Villa Pamphili a Roma. Ad ogni giorno la sua dose di km: dai 15 di base fino ai 38 dell’ultimo “lunghissimo” fatti in tutte le ricette: lenti, veloci, medi, ripetuti. Sotto la pioggia, la neve, il sole e la tempesta: ogni maratoneta sa la sorte alla quale va incontro. E sa anche quanto deve dormire, sei ore, nel mio caso: alle 6 e 30 le mie vecchiette intonano inflessibili il Salga a te, Signore che dà inizio all’eucaristia, primo allenamento di qualsiasi mia giornata.
Fino a qui il fisico: ma la scatola nera sta in cima, su quel promontorio – per me di difficile gestione – che va sotto il nome di mente. Per chi ama correre in solitario come me – privo di Ipod, chiacchiere e barzellette – le ore di corsa sono delle fasi creative: rielaboro la lettura dei quotidiani, immagino i miei di articoli, sistemo le letture fatte in biblioteca, organizzo i capitoli del mio dottorato. Il più delle volte prego: per me, per il bel tempo, per le persone che me lo chiedono, per la testa quando l’avverto pesante. Durante la gara mi ripeto sempre e solo una frase (che un giorno diventerà qualcosa): “corro perché conquistato”. E’ di Paolo, quello santo: mi ricorda che quando lo starter dà il via, il traguardo inizia ad attirarmi con il suo potere. E in quei 42km siamo in quattro a correre, è la mia scorta speciale: davanti c’è Lui, il mio allenatore. A destra e sinistra ci sono Stefano e Francesca: due piccoli bambini saliti velocemente al cielo che sono i miei due angeli. Dietro ci sta mia nonna: perché gli agguati arrivano sempre da dietro. E ogni tanto, paralleli ai miei momenti di crisi, m’intonano la mia colonna sonora – La leva calcistica della classe ’68 di Francesco De Gregori – quella che parla del pallone, del rigore e del campione: e che io associo sempre a Roby Baggio. E la mente si riaccende.
Al km 40 tace tutto: è il silenzio che prepara alla grande liturgia. Ultimo rifornimento, uno spruzzo d’acqua in fronte e uno sui polpacci. Poi vedo solo lei sorridere e barcamenarsi sotto il traguardo. La punto, magari accelero, mi tuffo esausto tra le sue braccia: un istante che vale 1600 km di fatiche e minacce. Penso che preparare una maratona sia un po’ come immaginare il sudato traguardo dell’Eternità: anche se lì i sandali dovranno essere tolti per la sacralità del percorso di gara.
Cioè sarà ancora più affascinante da strappare.

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