owensLe scarpe odorose di polvere, il completino fradicio di sudore, il veloce battito del cuore. E poi chilometri e chilometri: tra sentieri di campagna e strade asfaltate, nel verde dei prati e lungo le vecchie ferrovie incontrando paesaggi, persone e fontane d’acqua. Anche questo è preparare una maratona: assaporare piccole soddisfazioni, godere di un limite abbassato, avvertire la musica di muscoli sempre più brillanti. Certamente c’è la storia del soldato greco Filippide, il primo “maratoneta” registrato negli archivi: di lui si ricorda quell’urlo lanciato sotto le mura d’Atene: “Abbiamo vinto”. Ma dietro di lui c’è tutta una storia di imprese, di tentativi, di appostamenti e di preparazioni che fanno di lei, donna Maratona, la sfida dell’uomo con gli uomini, dell’uomo con se stesso, dell’uomo con i propri limiti. E’ la bella lezione dello sport che, quando rimane tale, è capace di forgiare il carattere, tenere equilibrata la mente, allenare la vita a non mollare la presa. Non è un caso che tante volte si paragoni l’esistenza ad una corsa da affrontare, la vita come una maratona. Poche volte viene chiesta la brillantezza di un centometrista, il più delle volte serve la costanza e il fiuto di un maratoneta. Che dosa lo sforzo, programma con intelligenza la gara, dosa le energie; che sa quando scattare, aumentare il passo, recuperare. Attento a non lasciarsi scappare l’attimo che fa di un ritmo magari sonnolento la velocità giusta per la vittoria. La velocità del gabbiano Jonathan Livingston: “non significa mille miglia all´ora, nè un milione di miglia, neanche vuoi dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta vuol dire solo esserci, essere là”.
E’ un bellissimo mistero l’atleta: sotto la canicola d’agosto o il gelo di gennaio, con la pioggia o il vento, sotto una bufera o trepidante per un temporale lui è sempre presente. Perchè sa che la medaglia è questione di tanta costanza e altissima precisione: non s’improvvisa una maratona, la si pianifica. I primi allenamenti corti che s’allungano sempre più, i cambi di ritmo prima lenti poi sempre più faticosi, la corsa media, le ripetute e quei “lunghissimi” che pian piano t’avvicinano alla soglia dei 42 km, alla soglia dell’emozione. E’ la vita: che si conquista pian piano, che si gusta, alla quale ci s’allena, che non s’improvvisa, che t’invita ad ascoltare te stesso per imparare a parlare con il mondo. Guardi l’atleta e vedi la passione, lo stupore, la caparbietà nascosta sotto quelle smorfie di fatica, la sofferenza dell’allenamento per vivere poi la gara da campione.
E nel correre sei da solo, in tua compagnia, forte delle tue sole forze: “Amo correre, è una cosa che puoi fare contando sulle tue sole forze, sui tuoi piedi e sul coraggio dei tuoi polmoni”. Parola di Jesse Owens, il campione nero che indispettì Adolf Hitler ai giochi Olimpici di Berlino. Nei sentieri d’allenamento ci son sguardi giovani e meno giovani, ragazzi, donne e anziani intenti ad allenare il fisico. E’ dentro queste immagini che ha trafugato Paolo di Tarso, l’atleta di Dio, per parlare della fede: lodando la padronanza dell’atleta, l’impegno totale, il raccoglimento durante la gara, il non risparmiarsi ammaestrava sull’agonismo spirituale, sull’addestramento dell’anima, sulla corsa verso Cristo. Che è risposta al traguardo dell’Eternità. E, all’amico Timoteo, confessava il suo segreto d’atleta: “Corro perchè conquistato!” (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: ad accendere i suoi passi c’è sempre un sogno, un tocco di seduzione, un frammento di bellezza. Un qualcosa che seduce.
Che sia una medaglia o un Volto il prezzo non muta: si chiama sudore.

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