Sui gradini di una chiesa coi colori tra le dita. Per teologare assieme a loro, ragazzi dagli sguardi veloci e dagli sguardi anonimamente mistici. Partiamo da loro e con loro: con voci, immagini e pensieri rastrellati origliando dietro i loro passi per tentare d’aprire un varco alla trascendenza. D’altronde

la vita riesce a scovarci anche quando nessuno sa più dove siamo, neanche noi. Per quanto lontani ci troviamo, essa si apre sempre un varco fino a noi. Per quanto grande sia la nostra volontà di evitarla, di fuggirla, rifugiandoci in un lavoro, in un impegno, in qualcosa di assorbente, essa arriva comunque e si prende gioco di noi, della ingenuità dei nostri progetti, della sapienza dei nostri calendari.(1)

Dalle pietre assolate di Ponte Milvio, preparatio e pungolo alla nostra riflessione teologica, approderemo alle righe sudate di normale ma appassionata teologia di Karl Rahner: traghettando per i pensieri immaginativi di Antoine de Saint-Exupéry e l’epistolario di Giovanni Berchet.
Per annodare un punto di partenza ai nostri passi.

1. Ponte Milvio: fenomenologia dell’essere coloratoAvventure di uomini e donne che, cercandosi, s’attirano.
lucchettiPietre che, riscaldate, parlano. Con immagini che dicono molto più di quello che si riesce a leggere. Non è l’elogio del nulla: è che essere innamorati è essere ubriachi.(2) Come quell’uomo che da bambino avvistai all’esterno dell’osteria di paese. Stordito dal bere, avanzava a passi lenti poggiandosi al campanile. D’un tratto ha frugato nel cappotto, ne ha tirato fuori del denaro e lo ha gettato, a manciate, sulla strada. Poi se n’è andato, incurante di quella fortuna. E’ un po’ così essere innamorati: vuotarsi le tasche, rischiare una fortuna. Scoprire – segregati – d’essere nulla. O forse tutto.
A Ponte Milvio le pietre sono invecchiate. Ma le parole vergini le ringiovaniscono. Sono l’elogio della creatività, dell’immaginazione, di una trascendenza ingabbiata nell’immanenza dell’attimo.
Del gesto. Della passione amorosa. Dell’esistere.
Accavallati sui banchi di scuola, lemmi come allegoria e anacoluto, disfemismo ed endiadi, epanalessi e ipallage, iterazione e litote. Metonimia, pleonasmo e similitudine. Sineddoche e sinestesia somigliano ai macigni che Sisifo spingeva sulla montagna. Stessa sorte sembra non toccare all’iperbole, il cui uso è cantato a squarciagola. Sull’ingresso destro del ponte, a mo’ di atrio, si legge: «Federico ed Emanuela si amano come nessuno è mai riuscito fino ad oggi». Forse un peccato di ingenuità se, qualche centimetro dopo, qualcuno se n’è risentito e ha preso le distanze: «Io e Simo di più. Ah Ah!». Pietre secolarizzate: un tempo solo Dio sapeva la profondità di un amore. Oggi «sono due mesi che stiamo insieme e direi che sono stati mesi bellissimi ke nemmeno Dio sa». Nemmeno Dio: ovvio! L’uomo s’è emancipato fino a scrivere in un lucchetto: «Dio è morto. Cin Cin». Con il conseguente «io e te: nessuno ci vede. Godiamo».
Tre passi avanti, sulla destra in basso, una bomboletta sembra tradurre l’esultanza di Adamo al sorgere primigenio di Eva: «Buongiorno, spettacolo, ti ho già detto che ti amo» o, per i detrattori del Destino a scapito della Provvidenza, un più laico «sei la cosa più bella che mi sia mai capitata nella vita». C’è pure spazio per un fato meno orripilante: «credi al destino, i nostri camminano insieme». Ma ogni attimo reca in sé il rischio di scemare: «Non so che fare. Tutto nasce e poi muore». Meglio festeggiare, allora: «Oggi facciamo un mese e io ti amo da una vita». Il compimese di Francesca è la versione moderna e attualizzata delle nozze di platino dei miei trisavoli sulla soglia dei 75 anni di coabitazione amorevole. Nel tempo dell’omologazione facile, la loro è una teologia di denuncia. «Prima eri come l’oro, ora sei come loro». O una profetica presa di posizione. Come si racconta sul terzo vagone della metro B: «La società mi insegna solo a odiare – mi esprimo illegalmente e cerco di amare».
Nemmeno la Scrittura sembra a loro estranea o indifferente. Ci entrano, la strapazzano e se l’addossano. Chissà se sarà nostalgia dell’Eterno o un anonimo cristianesimo dell’inconscio: «Come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché l’amore è forte come la morte e le acque non lo spegneranno. Luca e Federica». Pure l’ecumenismo potrebbe scorgere spunti di teologiche piste: «La vita è un dono meraviglioso che il Signore ci ha dato, ma quando è passato con te è qualcosa di veramente speciale». Per concludere con un’orazione accorata densa di popolare evocazione: «Prego il Signore e la Madonna del Tindari di cancellarti da me al più presto e di non farmi più soffrire». Qualcuno – forse complice – aggiunge a penna leggera quell’«Ascoltaci, Signore» appreso in sottofondo sul sagrato della chiesa.
E se il Padoa Schioppa, ex ministro, li definisce bamboccioni, della loro tenerezza non tengono vergogna e a farne le spese sono le bombolette spray perché «ho una bomboletta in mano – la strada è deserta – e penso a te»: «sei proprio la mia toporagna», «tegolino mio», «panzerottina mia», «coniglietto e diavoletta all’inferno assieme». Per concludere con una cantilena degna della capra che canta sotto la panca: «tigrotto e tigrina fanno una coppia felicemente felina». Affidata alla pietre perché ne tramandino l’eco ai passanti: «Tutto il mondo lo deve sapere: ti amo troppo! Oriana». Tutto il mondo: non temono la privacy. Facebook l’attesta.
Non mancano gli esami di coscienza elaborati sotto il cielo di Roma: «26.06.07. Ieri sarebbero stati 32 mesi che stavo con il mio ragazzo. Proprio ieri ha fatto una cazzata. Ma io lo amo ancora da impazzire». Non parla a lui. L’affida al ponte. Forse a Dio. Come chi ammette la sua apologia di falsità: «No, non ti voglio, ma sono bugiarda…». Dimostrando la capacità di ricredersi e ri-offrire chance d’amore: «Principessa ti amo anke se non lo meriti 8.6.07 – Mo’ forse te lo meriti 19.6.07».
E la storia continua. «Stefano ti voglio… accorgiti di me». «Sei la mia vita anche se non lo dico e non lo leggerai mai». «Stefano ti adoro e non me lo so spiegare. Marta». «Tato non cambiare mai!» «Hatty ritorna in te! Giuliana». «L’amore è tutto una burla». «Solo a pensarti mi vengono i brividi».
Essere scrittori è saper estrarre dal fondo dell’animo immagini che dormono. E rimetterle in piedi gioiose, libere e mute. Immagini che non trasmettono insegnamento alcuno. Nulla hanno da dire. O da proferire.
Se non il loro allegro squadernarsi sotto il cielo della caput mundi.

2. La poesia popolare di Giovanni Berchet. Le anatre selvatiche e le gazzelle di Antoine de Saint-Exupérymichelangelo_bIl Buonarrotti scultore svelava che quando guardava un blocco di marmo vi scorgeva già dentro la forma dell’opera d’arte: il suo lavoro non era altro che togliere il superfluo, quel di più che impediva alla statua di ergersi nella sua luminosa potenza. Pure l’uomo sembra esser così articolato: contiene già tutto, anche se non si vede. «Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio (…) Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro» (cfr Sal 139, 14.16).
Necessita liberazione. Risveglio. Evocazione.
Pubblicata nel dicembre del 1816 a Milano, la Lettera semiseria – il cui titolo completo è Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Burger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo – è la risposta di Giovanni Berchet (1783 – 1851) alla polemica tra classici e romantici che si era aperta all’inizio di quello stesso anno a seguito dell’articolo di Madame de Stael circa la maniera e l’utilità delle traduzioni.
Il successo di tale lettera potrebbe annidarsi tutto nella sua semplicità. Il personaggio locutore è un uomo di buon senso, privo di velleità filosofiche, un «vecchierello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né filosofo». La struttura epistolare e il rapporto di parentela tra Grisostomo e il destinatario della lettera anticipa una sua finalità educativa stabilendo un nesso strutturale tra letteratura e vita. Per il nostro viaggio tra i chiaroscuri della dis-affezione giovanile, tale lettera è uno spunto di riflessione.

Tutti gli uomini, da Adamo in giú fino al calzolaio che ci fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla Poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima. La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est Deus in nobis.(3)

Quest’ultimo verso di Ovidio merita un cenno: «Et Deus in nobis, agitante calescimus illo» («c’è una presenza divina in noi, al cui soffio ci infiammiamo»).(4) Tutti gli uomini tengono una tendenza attiva alla poesia. In alcuni, però, tale tendenza è «passiva», cioè si esplica nella sensibilità a recepire il messaggio poetico. Con simpatiche oscillazioni. Diversamente, cosa risveglierebbe il poeta?

Il poeta, dunque, sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva.

Lo stile vivacemente esemplificativo – che rinuncia alla ricercatezza dei termini per privilegiare l’immediatezza dell’esposizione – accompagna il lettore alla celebre distinzione tra Ottentotti, Parigini e popolo. I tre gruppi si differenziano sia in base ad elementi sociologici sia sulla base di caratteristiche prettamente culturali. Rifiutati gli Ottentotti, plebe necessariamente costretta all’ignoranza da condizioni materiali impietose, Berchet non trova il suo destinatario neppure nei Parigini dagli spiriti raffinati che saranno suo bersaglio per la loro adesione alla tradizione e per la loro incapacità critica.
Pur tenendo ognuno una tendenza alla poesia nel fondo.

Lo stupido Ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stenderseli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per lo contrario un Parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta Civilizzazione, è passato attraverso una folla immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per cosí dire); gli effetti di esse non lo commuovono piú, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore, cresce in arguzie per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il Parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini, o per dirla a modo del Vico, diventa filosofo.

Ma chi sono, dunque, i lettori cui lo scrittore si rivolge? Sono i milioni di individui, dotati di una certa educazione e sensibilità che egli qualifica come «popolo».

L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtú morale, possa essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa (l’italiana anch’essa, né piú né meno)sono formate da tre classi d’individui: l’una di Ottentoti; l’una di Parigini; e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non, eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di popolo.

Che costoro costituiscano l’ideale destinatario del suo messaggio risulta evidente dal tono spontaneo e familiare della Lettera, dall’espediente retorico attraverso il quale l’autore si situa nella medesima posizione del lettore (un «vecchierello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né filosofo») e dal rapporto epistolare, quotidiano e informale che ne giustifica lo stile esemplificativo.

Della Prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre far parole. La seconda (…) vuole bensí essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta (…). La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia, non ha a mettergli grande spavento.
La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come la sola vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e salva sempre la discrezione ragionevole questa regola vuole essere interpretata.

C’è quindi in ognuno una tendenza alla poesia. Contrariamente nulla potrebbe l’operare del poeta. Al quale, pertanto, spetta il compito d’accendere, spolverare, evocare quest’inclinazione comune a tutta l’umanità.
Siamo in presenza di un mondo interiore da risvegliare anche nelle pagine di Terra degli uomini, una galleria di avventure nei cieli del mondo, di memorie autobiografiche, di riflessioni e appunti di viaggio firmati dallo scrittore d’oltralpe Antoine de Saint-Exupéry (1900 – 1944) durante la lunga convalescenza dopo un incidente aereo capitato all’autore nel Sahara, durante una trasvolata da Parigi a Saigon nel 1935.
anitreTante pagine dello scrittore – uomo d’azione francese reggono sull’idea dell’uomo come essere-nel-mondo, sempre in bilico tra la dispersione nell’inautenticità dell’uomo-massa e la possibilità di riprendere in pugno il nostro destino. L’essere-nel-mondo può aprirsi ad un essere-per-la-vita in modi intensi e radiosi fino ad affrontare un essere-per-la-morte che ne costituisce il marchio d’autenticità. Saint-Exupéry è un narratore concreto che coglie magnifici frutti dalla terra del quotidiano. Odia quelle masse per le quali non riesce a trovare nessun posto dentro quel suo sistema che è fatto solo per chi sa osare, per esistenze solitarie, per uomini di grande statura individuale. L’opposto è la creatura destinata a disseccarsi fino a precipitare nel banale. Fino a sfilare la stoffa di quel nuovo Mozart che un bambino potrebbe nascondere. Per addormentarsi nel fondo di un vagone del treno come quei lavoratori polacchi, espulsi dalla Francia e rimandati al paese d’origine, dipinti nel suo libro. E’ chiaro che per loro non ci sarà futuro, e neppure per i loro figli nonostante la beltà giovane della loro età. Ma la creatura non deve disseccare, il Sahara non deve vincere.
L’estetico non deve diventare an-estetico.
Ecco, allora, la storia della trasmigrazione delle anatre o delle oche selvatiche.(5)

Mi si sono presentate alcune immagini per spiegare a me stesso quella verità che non hai saputo tradurre in parole ma la cui evidenza ti ha guidato. Allorché avviene il passo delle anitre selvatiche, all’e­poca delle migrazioni, provoca strane maree nei territori su cui transita, in alto. Le anitre domestiche, come attratte dal grande volo triangolare, abbozzano un balzo malde­stro.
Il richiamo selvatico ha destato in loro non so quali selvagge vestigia. Ed ecco le anitre della fattoria tramutate in un istante in uccelli migratori. Ecco che in quella testolina dura, in cui circolavano umili immagini di stagno, di vermi, di pollaio, si sviluppano le distese continentali, il sapore dei venti del largo e la geografia dei mari. La bestiola ignorava che il suo cervello fosse abbastanza vasto da contenere tante meraviglie; ma eccola battere le ali, disprezzare il grano, disprezzare i vermi e voler diventare anitra selvatica.

Stesso dramma s’annovera sotto i cieli dell’uomo che, ghermito da una presenza misteriosa, scopre come la sicurezza del comfort domestico abbia soffocato sin troppo bene la parte che potrebbe raccogliere quell’invito. Trasale appena, accenna due tre colpi d’ala, quindi precipita nel cortile.
L’esempio prosegue con l’immagine delle gazzelle di Juby.

Ma rivedevo soprattutto le mie gazzelle: ho allevato gazzelle, a Juby. Tutti abbiamo allevato gazzelle, laggiù; le chiudevamo in una casa di graticolato, all’aria aperta, poiché le gazzelle hanno bisogno dell’acqua corrente dei venti, e nulla è più fragile di loro. Tuttavia, catturate giovani, sopravvivono, e vi brucano in mano. Si lasciano accarezzare e affondano il muso umido nella palma della vostra mano. Le crediamo addomesticate. Crediamo di averle messe al riparo dal dolore sconosciuto che spegne silenziosamente le gazzelle e a esse procura una morte tenerissima… Ma viene il giorno in cui le trovate che premono le loro piccole corna contro il recinto, nella direzione del deserto. Sono calamitate. Non sanno di fuggirvi. Vengono a bere il latte che recate. Si lasciano ancora carezzare, affondano ancora più teneramente il muso nella vostra palma… Ma appena le lasciate andare, vi accorgete che dopo una parvenza di galoppo felice, sono ricondotte contro il graticolato. E se non intervenite ulteriormente, rimangono là, senza tentare neppure di lottare contro la barriera, ma solo premendo contro di essa, a testa bassa, con le piccole corna, fino a morire. Sarà dovuto alla stagione degli amori o al semplice bisogno di un grande galoppo a perdifiato? Non lo sanno. Quando ve le hanno catturate, non avevano ancora aperto gli occhi. Nulla sanno della libertà nelle sabbie, come dell’odore del maschio. Ma voi siete molto più intelligenti. Ciò che cercano voi lo sapete, si tratta della distesa che le farà complete. Vogliono diventare gazzelle e danzare la loro danza. A centotrenta chilometri all’ora, vogliono conoscere la fuga rettilinea, spezzata da bruschi scatti come se, qua e là, dalla sabbia uscissero fiamme. Che importano gli sciacalli, se la verità delle gazzelle sta nel gustare la paura che, sola, le costringe a superare se stesse ed estrae da loro i più alti volteggi! Che importa il leone, se la verità delle gazzelle sta nell essere squarciate da una zampata nel sole! Le guardate e pensate: eccole prese dalla nostalgia. La nostalgia è il desiderio di non si che… L’oggetto del desiderio esiste, ma non ci sono parole per esprimerlo.
E, a noi, che cosa manca?

Saint-Exupéry intuisce bene che ricomporre la gestalt del mondo non è cosa semplice. E in questo differisce dalla nausea di Sartre e dall’assurdo di Camus per i quali l’incontro tra l’uomo e il mondo non giungerà mai a ricomposizione. L’uomo prova dei conati di vomito verso il mondo. O, tutt’al più, decreta che non è possibile riempirlo di senso. Lo vota all’assurdità. Forse la pienezza sta dietro l’angolo, a portata di mano, d’aereo, di rotta. E’ sempre possibile fallire simile traguardo. In ogni caso, chi vuol tentarlo deve rimettere in gioco ogni volta tutta la posta, avventurarsi fino a sfidare la morte. O, ben più arditamente, sfidare quella tentazione di inautenticità nella quale i sensi s’appisolano definitivamente.
Incuranti della trasmigrazione delle anitre.
O della corsa delle gazzelle.

3. Gli «scarponi» di Van Gogh: toccata e fuga.scarponiE’ conservato ad Amsterdam, nel Museo a lui dedicato, un olio su tela (37,5 x 45,5) del 1886 intitolato Un paio di scarpe e firmato dal pittore Vincent van Gogh. L’immensità di quell’opera d’arte sta nel nobilitare un paio di calzature che, emergenti da uno sfondo oscuro, si lasciano carezzare da una luce che le avvolge accendendole. Ostico cercare di decifrare la locazione di quelle scarpe, forse di contadino. Risalta solamente uno spazio indeterminato, scuro, sconosciuto. Non ci son tracce di terra, grumi di fango che aiutino a denunciarne l’impiego. E l’impegno.
Solo l’interno logoro, sformato, adoperato lascia immaginare la pesantezza del cammino, il lento procedere su zolle sconnesse, fangose. Zolle di brughiere battute dal vento. Attraverso le scarpe sembra evocare, emergendo, la lentezza del viottolo, il calare della sera, il canto dei grilli o il lento girare dei roditori. Forse gli aromi dell’esistenza: l’angoscia, la gioia, il tremore. Il timore di una pane da sfornare. O di un bucato da stendere. In quelle scarpe sdrucite c’è quasi il mistero dell’apprendere umano dove l’unica lingua veramente materna è quella di cui conosciamo spontaneamente le sfumature più piccole. Fino a farle diventare poesia.
E quella luce che, silenziosa e rombante, sembra tutt’intenta a tradurne la ferialità in elegia. Quasi a tentare di svelare la trascendenza nascosta nell’immanenza.
Le poesie lasciate sulle pietre calde di Ponte Milvio. Il richiamo delle anatre selvatiche nella loro trasmigrazione. Gli allevamenti delle gazzelle di Juby. E quelle testoline che si risvegliano, si ri-scoprono, s’alzano. Bisognerebbe compiere tutte le cose e anche le più ordinarie con l’attenzione più viva, come se il destino del mondo o la traiettoria delle stelle dipendessero da questo.
Perché le immagini potrebbero essere specchio – o, per anticiparne l’ingresso, «cifra» – dell’Eterno nello scorrere del tempo.
Uomo compreso.

4. Karl Rahner e l’uditore della parola: l’uomo di fronte a DioPenelope l’attendeva e lui – l’Ulisse delle mitiche e mitologiche colonne d’Ercole – tratteneva gli odori e gli aromi del focolare lasciato ad Itaca. L’Odissea ce lo racconta seduto in riva al mare con quegli occhi, mai asciutti di lacrime, che consumavano la vita sospirando un ritorno. Il suo ritorno.

Calipso, inclita dea, non ebbe in lui
gli occhi affissati, che il conobbe: quando,
per distante che l’un dall’altro alberghi,
celarsi l’uno all’altro i dèi non ponno.
Ma nella grotta il generoso Ulisse
non era: mesto sul deserto lido,
cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
con dolori, con gemiti, con pianti
struggeasi l’alma, e l’infecondo mare
sempre agguardava, lagrime stillando.(6)

Con la testa spesso volta verso il sole, quasi ad affrettarne nel cuore il tramonto. Per poter far ritorno all’isola lasciata!
Pure l’uomo scrutato dal teologo di Friburgo Karl Rahner (1904 – 1984) – colui che risulta essere l’«evento dell’assoluta auto-comunicazione di Dio» – se ne sta seduto nelle rive del tempo in fronte a Dio. Sospirando l’aggancio finale.

Potremmo definire l’uomo come ciò che sorge quando l’autoespressione di Dio, la sua Parola, viene pronunciata con amore nel vuoto del nulla non-divino (…). L’abbreviazione, la cifra di Dio stesso è l’uomo, cioè il Figlio dell’uomo e gli uomini, i quali in fondo esistono perché doveva esistere il Figlio dell’uomo. L’uomo è la domanda radicale di Dio la quale, creata in quanto tale da Dio, può avere anche una risposta, una risposta che, in quanto apparsa storicamente e radicalmente tangibile, è l’uomo-Dio, e che viene data in tutti noi da Dio stesso. (…). Così egli diventa precisamente colui che partecipa al mistero infinito di Dio, così come la domanda partecipa alla sua risposta ed è sorretta e resa possibile sol attraverso quest’ultima.(7)

Punto centrale della preoccupazione e della passione di Rahner è svelare la ragionevolezza di un rapporto intessuto nell’armonia tra Dio e l’uomo, partendo dall’innata distanza che sussiste tra la creatura e il Creatore. E’ un’immagine positiva dell’uomo quella a cui s’aggancia il teologo: partner che Dio necessita, vuole e cerca mettendolo al mondo. «Nel mentre egli, data la sua perenne pienezza infinita, si estrinseca, sorge l’altro come realtà divina sua propria».(8) E’ una visione che prende decisamente le distanze da una certa impostazione teologica che vedeva l’uomo così vincolato a Dio da doversi annientare per realizzarsi come creatura.(9) Visione distanziante pure dall’accusa di proiezione escogitata da Feuerbach, dà ragione dell’anelito all’infinito che contraddistingue ogni uomo. Pertanto l’uomo «si sperimenta come il soggetto dell’evento dell’auto-comunicazione assoluta da parte di Dio».(10)
Per illustrare questo Rahner invita a guardare alla natura stessa dell’uomo. Emerge che nell’atto della creazione – mentre Dio pone la creatura fuori dal nulla, in una realtà propria e distinta da Lui – Dio la delinea come la grammatica di una possibile auto-manifestazione divina.
L’uomo è l’uditore della Parola, lanciato verso il Dio vivente. E Cristo, come lo intende Rahner, non è una sorta di risposta universale, ma una Parola carica di silenzio che, velandosi e ritraendosi, chiama l’uomo ad una libera decisione. E l’uomo diventa cosciente di ciò nel raccogliersi e nel tendere l’orecchio a quel Mistero che

si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silenzio, della lontananza, di uno che si mantiene costantemente in uno stato di inespressività, cosicché qualsiasi discorso da parte sua, per essere percepibile, ha sempre bisogno che tendiamo l’orecchio ad un silenzio.(11)

In quanto soggetto aperto alla conoscenza, l’uomo si conosce e si sperimenta finito, ma scopre la possibilità di superare la sua finitezza proprio perché abita in quell’essere limitato che presuppone un esse absolutum. Così l’uomo fa l’esperienza che potrebbe essere chiamata trascendentale, collocandosi in un orizzonte sempre più vasto del finito, in quanto spirito. Ma proprio per essere spirito non troverà mai una risposta finita soddisfacente. L’uomo di fronte al mistero dell’essere e di Dio scopre se stesso come mistero, anche lui aperto all’assoluto. Questa conoscenza di Dio che l’uomo fa nell’atto di conoscere è atematica e anonima, frutto di un’esperienza trascendentale.
uomo1Ma questa conoscenza atematica è il fondamento di quella tematica e categoriale. L’apertura all’assoluto rende possibile all’uomo il trovarsi in attesa di una possibile rivelazione di Dio. L’uomo non può costringere Dio a rivelarsi, ma se Dio non parla, l’uomo può ascoltare anche il silenzio di Dio. Rivelandosi, Dio fa conoscere la sua essenza poiché la rivelazione è l’effettiva manifestazione di sé e non può non essere assolutamente libera.
La parola è il luogo della rivelazione di Dio. Ma questa parola ha una specificità: è pronunciata dentro una storia che mette l’uomo di fronte Dio, il quale vuole auto-comunicarsi con assoluta libertà, mentre l’uomo rimane totalmente libero di dare ascolto o di rifiutare il messaggio divino.
Perciò, conclude Rahner, chi accetta liberamente la sua trascendenza naturale verso il mistero e gli si dona, ammette senz’altro Dio, anche se non lo conosce in maniera oggettiva o addirittura si ritiene ateo. Nella trascendenza naturale è inclusa anche la grazia dal momento che l’uomo è ordinato all’unico fine soprannaturale. Ne consegue che la grazia non è ristretta ai cristiani dichiarati, ma si estende anche alla grande massa dei cristiani anonimi.
Nell’antichità l’uomo sognava che gli dei scendessero nella terra: le mitologie lo immaginavano in modo favoloso. Il cristianesimo delle origini faceva vertere la sua attenzione sul mistero dell’Incarnazione: «E il Verbo si fece carne» (Gv 1,14).
In tal modo il sogno mitologico era diventato realtà!
A seguire Rahner, l’uomo d’oggi (non è poi così cambiato l’animo dell’uomo in questo squarcio di millennio) s’interroga fino a dove possa salire: le imprese spaziali possono rappresentare un’esplicazione. Ora noi constatiamo ogni giorno che l’uomo può diventare un grande: artista, pensatore e scienziato. L’invenzione della ruota volano, del coltello e della meridiana arcaica. Dell’alfabeto, dei numeri irrazionali, del menir. Della catapulta, dell’astrolabio, della polvere da sparo. Del Capo di Buona Speranza, della calcolatrice, della macchina vapore. Della Scala Celsius, della Scala Richter, del diapason. Della macchina a vapore, della bottiglia di Leyda, della legge di Avogadro. Dall’andatura a due gambe, al sommergibile alla tecnologia Hi-tech. Fino a dominare la natura.
Poi si blocca: cambiarla non gli è concesso!
Il cristianesimo insegna una cosa stupenda: sul soprannaturale la fede c’assicura che l’uomo può diventare Dio e rimanere uomo. E questo accade in Gesù Cristo.
Nella cristologia un messaggio antropologico stupendo!

5. Tracce di un percorsoUna telefonata colta sul sagrato di una chiesa di città. Quella carrozza dell’Eurostar sonnolento: fuori i cipressi erano tristi. Ma chi ha rubato il tetto nella chiesa di San Galgano?
“Come barche ormeggiate. Immaginazione ferita e dis-affezione giovanile” è un viaggio. Meglio: una proposta di viaggio sulle tracce di un cristianesimo – più stilistico che contenutistico – che aiuti il giovane a tendere l’orecchio raccogliendosi. Un viaggio in tre tappe.
L’appuntamento per lo status quaestionis è a ponte Milvio, cuore della Roma amorosa. Sull’antichità delle pietre, la giovinezza di scarabocchi, dichiarazioni e pentimenti. Naviganti nel lento e provocante fluire di questa giovinezza, spolvereremo tre immagini a mo’ di bussola: la poesia di Giovanni Berchet, le anatre selvatiche di Antoine de Saint-Exupéry e gli scarponi di Vincent van Gogh: immagini di umanità passibile di un possibile risveglio. Sulla sponda destra del ponte, ad attenderci un pensatore di Friburgo. Quel Rahner Karl che tanto spese per conoscere e far conoscere l’uomo. E Dio.
sentieroAttrezzati e provocati, tenteremo la traversata del mare della cultura moderna dove – tra ferite, occasioni e pluralità di verità – accenderemo i riflettori sul cristianesimo, in bilico tra memoria e provocazione. Per tentare di dare risposta ad una domanda a noi cara: c’è ancora possibilità per il cristianesimo oggi? Un fatto di cronaca londinese, una riflessione stuzzicante di Jean-Marie Tillard e l’immagine di Paolo oratore nell’areopago d’Atene saranno finestre attraverso le quali intra-vedere due tentativi di risposta moderna: l’«ospitalità del Nazareno» di Ch. Theobald e «L’invenzione del quotidiano» di M. de Certeau. Con relative tattiche, strategie e permessi.
Per giungere, in loro compagnia, nella radura della dis-affezione giovanile. Tradotto: si nega l’esistenza di Dio o non abbiamo più a cuore tale questione? Meglio ancora: abbiamo abbandonato Dio con la testa o con il cuore? Qualora il problema fosse situato nella zona del cuore, potremmo parlare quasi di una mancanza di affetto (dis-affezione) nei confronti di Dio. Che ci impedirebbe di innamorarci radicalmente. E, in ultima istanza, di convertirci autenticamente alla trascendenza. Sentimenti, emozioni e sapere dell’anima ci condurranno ad intuire l’importanza della «conversione» tanto cantata dal Lonergan teologo nell’ambito dell’esperienza credente. Soffermandoci su due concetti che riteniamo essere un possibile ago della bilancia nel nostro tentativo di percorso: «immaginazione» e «creatività».
Perturbazioni a parte, dovremmo approdare ad una conclusione – per il momento semplicemente abbozzata – che avrà le vesti di un tentativo di liberare la ricezione della Parola dalle mille interferenze che si frappongono nel giungere al suo uditore.
Un lavoro di teologia fondamentale applicato alla dimensione della pastorale giovanile.


Note

(1) C. Bobin, La merveille et l’obscur, Edition Paroles d’Aube, Venissieux 1996, 7-50.
(2) Per costruire uno sfondo sociologico si legga l’articolo di G. Scida’, «Come cuccioli senza collare: la ricerca di sfondo» in Il Nuovo Areopago 1 (2008) 3-23. E’ un’analisi delle sfide che i nostri adolescenti si trovano a fronteggiare. In esso si tenta di sottolineare la sostanziale solitudine causata dall’assenza di riferimenti e di guide autorevoli che possano orientarli nel complesso cammino educativo che li attende. Verso il conseguimento della loro condizione di adulti.
(3) Il testo della lettera è tratto da A. Budriesi, Letteratura: forme e modelli. Profilo storico e antologia della letteratura italiana con pagine critiche e scrittori francesi, vol. 3, SEI, Torino 1988, 296-300.
(4) Ovidio, Fasti, 6.5-8.
(5) A. De Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Mursia, Milano, 166-168.
(6) Omero, Odissea, V, 103-112.
(7) K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo 1990 (tit. orig.: Grundkurs der Glaube. Einfuhrung in den Begriff des Christentum), 292-293.
(8) Ibidem, 290.
(9) Cfr H.U. Von Balthasar, «La riduzione antropologica», in Id., Solo l’amore è credibile, Borla, Torino 1965, 33-51.
(10) K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, op. cit., 182.
(11) Ibidem, 95.

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