NelsonMandela

E’ uno dei passaggi più ironici e onirici della Costituzione Italia: “le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”. Che è come dire: la società ha la responsabilità di migliorare colui che sta scontando una pena. La storia di Nelson Rolihlahla (“il piantagrande”) Mandela racconta l’esatto contrario: l’avventura di un uomo che dal dentro di una cella di Robben Island – l’Alcatraz africano – in oltre diecimila giorni di galera ha rieducato la collettività. Fino a diventare una delle icone più luminose, in uno dei secoli più nebulosi dell’umanità, il Novecento. “Nessuno conosce veramente una nazione fino a che non è mai stato nelle sue prigioni” ebbe un giorno a ricordare Mandela: il carcere ti priva non solo della libertà, cerca anche di spogliarti della tua identità. Ma nessuno, verrebbe da aggiungere, immagina veramente le possibilità dell’umanità quando uomini e donne sono disposti a morire per le proprie idee. E’ emblematico che una delle prigioni di Johannesburg abbia avuto tra i suoi detenuti Nelson Mandela e Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma: al grado minimo di libertà d’azione può dunque corrispondere il grado massimo d’immaginazione, ossia di possibilità di immaginare un mondo e un modo diverso di essere uomini. Al servizio dell’umanità.
A Robben Island era il detenuto numero 466/64, l’occupazione era quella di spaccare le pietre, per passatempo scrisse quella che migliaia di giorni dopo divenne la sua autobiografia (“Lungo cammino verso la libertà”): la scrisse su dei foglietti nascosti nelle scatole dei cerini. Eppure dentro quella cella di meno di due metri – con una finestra di 30 centimetri – fece tesoro delle opportunità che la vita gli offrì e si mostrò capace di sognare non un altro mondo – quella fu l’illusione di chi firmò epiche catastrofi a spese dell’umanità – ma un mondo diverso laddove anche i potenti, qualsiasi rango sociale essi appartengano, abbiano la possibilità di imparare la lezione delle lezioni: nessuno può scommettere sulla propria durata. Quella di Mandela – non esente dall’essere stata anche una biografia in certi punti ambigua perché umana – è una delle storie che ha accompagnato l’umanità nell’ingresso del terzo millennio, con uno sconvolgente messaggio in allegato: la saldezza delle proprie convinzioni è il segreto per superare le difficoltà, perché “lo spirito è sazio anche quando lo stomaco è vuoto”. Cosicché dall’angustia di una cella, coltivando un piccolo orticello di pomodori – “una delle poche cose che in carcere era possibile controllare” – è possibile sentirsi custodi di un piccolo pezzo di terra che ricorda il profumo della libertà. Per coloro che hanno la capacità di scorgere negli infimi dettagli dell’esistenza umana i grandi principi che regolano la vita degli uomini.
Tre mesi prima, il 9 novembre 1989, era caduto il Muro di Berlino: nei nostri quaderni di scuola quella data era stata colorata, quasi sintomo di un nuovo capitolo. Quella domenica pomeriggio, l’11 febbraio 1990, ero a casa. Ricordo confusamente la vecchia tv della nonna nella quale si vedeva il volto di un uomo che tutto il mondo cercava di fotografare: il suo nome era Nelson Rolihlahla Mandela. Non potevo immaginare che quell’attimo sarebbe diventato uno dei frammenti di più alta concentrazione di umanità. Che, per diventare tale, ha dovuto fare i conti con il dramma della detenzione punitiva: d’altronde sono i tempi lunghi – della galera e di tante altre sopportazioni – che decretano la validità e l’originalità di un sogno. Hanno ragione i detrattori: non è morto un santo. E’ morto un uomo che un giorno scrisse: “mai dimenticare che un santo è un peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi”.
Per lasciare il mondo un po’ migliore di quello che ci si è trovati in dote.

La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.
E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.
Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante,
pieno di talento, favoloso?”
In realtà chi sei tu per NON esserlo? Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo:
non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi cosicché gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.

(Nelson Mandela, dal discorso di insediamento del 1994)

(da Il Mattino di Padova, 8 dicembre 2013)

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