Un popolo, quello d’Israele: non migliore o peggiore di tanti altri popoli, non meritorio di alcunché di meglio di tutti gli altri popoli. Su di lui, semplicemente, si è depositata la libera scelta di Dio, che ha posto in esso il proprio “compiacimento”, fedele, come solo la Sua parola sa essere, oltre ogni tradimento ed infedeltà.
Un uomo, Mosè: uno che ha vissuto, sulla propria pelle, tutto il dramma e tutta la lacerante tensione emotiva di essere un figlio di due popoli, di essere una sorta di ibrido, consapevole di provenire dal popolo ebraico, ma – allo stesso modo – di essere cresciuto tra gli egiziani. Un pezzo del suo cuore è da una parte, l’altro ha oltrepassato la barricata; le sue radici sussurrano Israele, ma la gratitudine, nonostante tutto, non può dimenticare la terra d’Egitto, che ne ha risparmiato la vita, lo ha cresciuto e l’ha fatto diventare uomo.
Nulla avviene in modo facile, senza fatica, senza sudore, senza impegno, senza la precarietà e l’incertezza di non poter predire i prossimi giorni, le prossime settimane, i prossimi mesi. Le 7 piaghe d’Egitto, le contrattazioni infinite con il faraone e la sua corte, il popolo in ostaggio, il popolo lasciato libero, poi inseguito, fino al mar Rosso.
Liberi? Li attendono 40 anni nel deserto, tra mille disagi e difficoltà, illuminati da un’immagine, una promessa, a mantenere viva la speranza: la terra di Canaan, dove “scorrono latte e miele”.
Mosè manda avanti gli esploratori; la stagione è favorevole (“erano i giorni delle primizie dell’uva”) e davvero l’impressione che li coglie è assolutamente entusiasmante. Uva, melagrane e fichi. Tutto fa pensare ad abbondanza e prosperità.
Gli esploratori ritornano. Non a caso, ritorna anche un numero. Il 40. Perché tornano quaranta giorni dopo. Che vengono dopo quaranta anni di peregrinazione nel deserto. Quaranta indica il tempo alla presenza di Dio: quaranta giorni e quaranta notti è il cammino di Elia nel deserto, perseguitato dalla regina Gezabele, quaranta giorni e quaranta notti è il tempo che Mosè trascorre sul monte Oreb, prima di ricevere le tavole della Legge. Agli occhi di s. Agostino, quaranta è il numero della perfezione, perché “la Legge è stata data nei dieci comandamenti, allora è per tutto il mondo che la Legge è stata predicata, e tutto il mondo è composto di quattro parti, Oriente e Occidente, Sud e Nord; quindi, moltiplicando dieci per quattro, si ottiene 40. O, meglio, è per i quattro libri del Vangelo che la Legge si compie”.
Ancora adesso, questo numero ci accompagna nella liturgia: 40 sono i giorni della Quaresima, che riprendono i quaranta giorni trascorsi da Gesù, nel deserto, prima di inizia la predicazione e 40 sono i giorni che seguono la Pasqua e arrivano all’Ascensione. Quaranta richiama quindi, anzitutto, un tempo penitenziale, propizio al ritorno a Dio.
«Siamo andati nella terra alla quale tu ci avevi mandato; vi scorrono davvero latte e miele e questi sono i suoi frutti» (Nm 13, 27)
Una promessa li precede. Una promessa li accoglie. La possibilità di salvezza li attende oltre i loro passi, oltre il presente, oltre l’oggi.
Talvolta, la vita pare schiacciarci. Il dolore sembra sovrastarci in modo ineluttabile e ineludibile. Pare, quasi, che il destino si accanisca e non vi sia possibilità di pace e serenità.
Dio, però, rimane fedele alla propria parola. Al di là del nostro tradimento. Al di là dei nostri dubbi. Nella sua parola abita la fedeltà, perché non è capace di tradimento. Ci attende, sempre. Solo due passi più in là. Come un padre che attende, con trepidazione i passi del figlio e lo incoraggia, con le mani e con il sorriso, senza però farsi prendere dalla frenesia di sostituirsi al figlio per “fare più in fretta”.
Rif. prima lettura festiva ambrosiana, nella III domenica dopo l’Epifania, anno C
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