Lo stupore
Se una parola può definire il pontificato di Joseph Ratzinger, questa è: sorpresa.
Ci ha sorpresi la sua elezione, ci ha stupiti con le sue encicliche e ci ha lasciati senza parole quando, in punta di piedi, dopo anni di quasi-dimenticatoio, con il suo “andarsene”, ha riacceso i riflettori su di sé, proprio a cavallo tra il 2022 e il 2023. Attirando un numero inatteso per molti alle esequie.
Come mai? Proviamo a capirlo, ripercorrendo qualche tappa che lo riguarda.
Marienfeld: i giovani e l’Eucaristia
Del 2005, anno della sua elezione, ho alcune parole scolpite nel cuore. Quelle della catechesi a Marienfeld, in cui alternava ottimi francese, italiano e tedesco a un inglese quasi incomprensibile (ciò che è giusto è giusto, non si acquisisce perfezione con la morte!).
«La parola latina per adorazione è ad-oratio – contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore»
Un passaggio dirompente, di uno dei tanti discorsi “da leccarsi le labbra” che fece durante il pontificato. Perché, nelle omelie e nelle catechesi, il raffinato teologo si trasformava in catechista sollecito ed omileta che si metteva in gioco in prima persona. Queste parole mi sono rimaste impresse perché contrastavano, tramite la forza dell’amore, la nomea, che lo precedeva di “pastore tedesco”. Bene, argomento “eucaristia”, di cosa parla? Del rapporto con Cristo come bacio appassionato, che fa comprendere meglio la proskynesis, il piegare le ginocchia di fronte al Re. L’Eucaristia come apice d’amore, vista in relazione al sorgere e al suo rapporto con l’eterno. Proposta così, a un milione di ragazzi “spiaggiati” su un campo agricolo, stretti tra estranei a combattere il freddo e l’umidità della notte. Al centro, Lui. Non Benedetto XVI, si capisce. Cristo-Eucaristia, cuore pulsante della Chiesa.
Prosegue, Benedetto, nella medesima omelia:
«La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere»[1]
Carità e verità
«La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1)»[2]: si tratta di un coraggioso passaggio, emerso poche ore dopo la morte di Giovanni Paolo II, con il mondo (ecclesiastico e non) ancora in lutto e sotto shock, perché quel lunghissimo, lungimirante, storico pontificato sembrava quasi potesse non avere mai fine.
Il rapporto tra carità e verità è, del resto, qualcosa di peculiare, non solo nel pontificato, ma nella vita di Ratzinger, che ben si esplica anche nella terza enciclica del pontificato del papa tedesco:
«Come l’amore sacramentale tra i coniugi li unisce spiritualmente in “una carne sola” (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due che erano fa di loro un’unità relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro e li fa pensare all’unisono, attirandoli e unendoli in sé»[3].
Deus caritas est
Le sorprese non finiscono. Le prime parole della prima enciclica del Panzer-Kardinal divenuto papa sono lungi dal sostenere anacronistiche inquisizioni: prendendo spunto dalla prima lettera di san Giovanni Apostolo, toccano l’essenza del cristianesimo: “Deus caritas est” (Dio è amore, ). Tre saranno le encicliche del papa-teologo (Deus caritas est, Caritas in Veritate e Spe salvi), con al centro l’amore e, a latere, un’applicazione sociale e pastorale, quasi a rispondere a chi vede la sua come una teologia “disincarnata”. Difficile però poter dire che passaggi come il seguente, riguardo alle istituzioni caritative manchino di concretezza o di “cuore”:
«La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la “formazione del cuore”: occorre condurli a quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore (cfr Gal 5, 6).»[4]
Catechesi e fraternità
Le sue catechesi, poi, si sono concentrate, in modo particolare su figure di santi, visti come “fratelli maggiori, che ci hanno preceduto nella fede”, soffermandosi su molte figure femminili (su tutte: santa Caterina da Siena, santa Chiara d’Assisi, Ildegarda di Bingen), respingendo, nei fatti, quell’alone misogino che, in qualche modo, lo aveva ricoperto.
Eppure, anche lavori giovanili avevano approfondito aspetti particolari del cristianesimo, come la fraternità cristiana[5]: umile libretto che affronta l’argomento, a partire dal concetto di “fratello” nell’Antico Testamento e nella cultura ebraica, seguendo lo sviluppo nella cultura pagana, in quella cristiana dei primi secoli ed infine nella cultura occidentale moderna.
Dal passato, un amore sempiterno per la liturgia
Con l’Introduzione allo spirito della liturgia (lavoro arrivato in italiano nel 2001 per San Paolo, oggi confluito nell’opera omnia, nel volume Teologia della liturgia), il professore di Maktl-am-Inn, vuole riprendere quanto iniziato, ai primi del Novecento da Romano Guardini, con ampi riferimenti ad Henri de Lubac, in particolar modo per ciò che riguarda i riferimenti cosmologici della liturgia. Anche in questo caso, possiamo notare la sua vena storica nell’analisi, che si accompagna alla concretezza, come possiamo votare inq uesto passaggio sul significato dell’inginocchiarsi, nella liturgia:
«Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo dobbiamo a Lui. […] Chi impara a credere, impara ad inginocchiarsi. […] Chi vuole arrivare vicino a Dio, deve guardare in alto – è essenziale. Ma deve anche imparare ad inchinarsi, perché Dio stesso si è inchinato […]. Piegarsi davanti agli uomini, per ottenere il loro favore, è realmente qualcosa di sconveniente. Ma piegarsi davanti a Dio non è mai “non moderno”, perché è qualcosa che corrisponde alla verità del nostro essere. E se l’uomo moderno l’ha dimenticato, allora è tanto più compito nostro, come cristiani di oggi, apprenderlo nuovamente e insegnarlo anche ai nostri contemporanei»[6].
Quanto scritto non intende essere altro che un breve, incompleto, esemplificativo, ma grato florilegio della produzione teologica ratzingeriana, che, nel corso del tempo, ha spaziato dalla teologia della storia (San Bonaventura) alla storia della liturgia, passando dalla storia della liturgia alla teologia spirituale e dogmatica ed alla cristologia.
Mi è parso opportuno accompagnarlo con una foto, forse inusuale, che lascia emergere il suo spirito conviviale e l’amore per la sua terra.
[1] Omelia nella spianata di Marienfeld, durante la XX Giornata Mondiale della Gioventù, 21 agosto 2005
[2] Missa pro eligendo romano pontifice, 18 aprile 2005
[3] J. Ratzinger, Caritas in Veritate, 29 giugno 2009, n. 54
[4] Benedetto XVI, Deus Caritas est, 25 dicembre 2005, n. 31
[5] J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Queriniana, 2005 (I edizione: 1960)
[6] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, 2014, p. 187 e ss.
Fonte immagini:
Api
Repubblica