Ieri si moriva in pubblico e ci si baciava in
privato. Oggi ci si bacia in pubblico e si muore da isolati. Magari sotto gli
occhi indifferenti di un vicino di posto: prospettive in fase di
stravolgimento. Simbolica, nello struggimento che reca, la morte di un
passeggero nella linea 105 dell’Atac. Teatro: pieno centro di Roma capitale.
Rumore di clacson, di sirene, di obliteratrici. Smorfie di stanchezza, squillo
di cellulari, miagolii di gatti. Sportelli che sbattono, campanelli che
suonano, mani che toccano. Che rubano. Che molestano. Tutti li avvertono. Un
uomo che muore agonizzando nessuno l’avvista. O lo vuol avvistare. Pieno centro
di metropoli. Come accennava A. de Saint-Exupery: si è soli quando s’abita il
deserto. Ma si può essere soli anche in mezzo agli uomini.
Nei templi fumosi di cattedrali originariamente
cristiane ci si stringe la mano come indizio di pace. Per credenza. Per
fortuita vicinanza. Per non essere diversi. Per non sfigurare. Appena fuori
l’indifferenza anestetizza il gesto fatto e la mano non stringe più mani. Non
le cerca più. Si muore nell’indifferenza. Si nasce nell’indifferenza. Si cresce
nell’indifferenza.
Eppure i sondaggi parlano di popolo felice, in
costante crescita, solidale. Tranquillo, sicuro, benestante. Sorridente a pari
dei suoi non-scelti rappresentanti. Bastassero i militari a fare d’un ammasso
confuso di gente una comunità.
L’esistenza sarebbe veramente un’operazione buffa e
di facile soluzione.